Il narcisismo è un termine che presenta una vasta gamma di significati, a seconda che venga utilizzato per descrivere un tratto della personalità, un concetto della teoria psicoanalitica, un disturbo mentale, un problema sociale.
Nel linguaggio di tutti i giorni, il narcisismo è per lo più sinonimo di egocentrismo, vanità, presunzione. In psicologia, il termine è utilizzato sia per descrivere il sano amor proprio, cioè il normale amore per se stessi, sia l'insano egocentrismo, causato da un disturbo del senso di sé.
La parola "narcisismo" proviene dal mito greco di Narciso secondo cui, il protagonista, Narciso appunto, era un bel giovane che rifiutò l'amore della ninfa Eco. Come punizione, fu destinato ad innamorarsi della sua stessa immagine riflessa nell'acqua. Incapace di consumare il suo amore, Narciso "rivolge lo sguardo rapito nello specchio d'acqua, ora dopo ora" e, infine, viene mutato in un fiore che porta il suo nome, il narciso.
Una particolare forma di narcisismo è quella definita “narcisismo digitale”, simile, per certi aspetti, all’egosurfing, che si caratterizza per uno smoderato culto della personalità, dell'apparire e di esibirsi sul web con i propri scritti, foto, video e messaggi.
Di per sé il narcisismo, quando indica un amore sano e legittimo per se stessi, non ha un’accezione negativa; esso perde tale connotazione quando si lega ad un bisogno abnorme di attenzione, affermazione, apprezzamento, gratificazione esterna. Se quest’atteggiamento psicologico interferisce seriamente con i rapporti interpersonali, gli impegni quotidiani e la qualità della vita, può assumere una dimensione addirittura patologica, culminante nel disturbo narcisistico di personalità. In tal caso, si esprime attraverso una serie di azioni “estremizzate” molto diffuse, volte alla ricerca di trovare continuamente consenso e approvazione, ad esempio con i selfie (dall’inglese “self”, letteralmente sé), pratica che caratterizza maggiormente gli adolescenti, ma anche innumerevoli adulti non fanno eccezione) o l’oversharing, vale dire l’eccesso di condivisione di informazioni.
Cosa si cela dietro questa tendenza? Gli studiosi Diana I. Tamir e Jason P. Mitchell, autori dello studio “Disclosing information about the self is intrinsically rewarding”, tramite un’indagine effettuata con risonanza magnetica funzionale, hanno avuto modo di constatare come, le regioni più reattive, nel momento in cui i soggetti si soffermavano a narrare le proprie esperienze, pensieri, emozioni, sono correlate fortemente con l’attivazione di aree cerebrali deputate alla percezione di un senso di gratificazione e di piacere. Il che fa sì che il comportamento si possa ripetere. La considerazione finale degli autori li conduce ad affermare che il piacere di parlare di sé agli altri è simile a quello, definito primario, che è intrinseco al cibo ed al sesso. Facciamo un esempio pratico. I selfie testimoniano il desiderio ed il piacere di apparire, di mostrarsi e dimostrare qualcosa di sé valutato come positivo e “degno” di essere condiviso. La loro funzione è quella di ricostruire un racconto delle nostre vite, della nostra quotidianità, sotto la luce migliore. Attraverso la condivisione dei selfie, l’utente è alla ricerca di un’approvazione che viene espressa attraverso il numero dei ‘mi piace’ ottenuti per ogni autoscatto, condivisione e complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che si vuole dare di sé. La consapevolezza di ciò spinge la persona che si trova di fronte ad una fotocamera, a preoccuparsi della sua apparizione e quindi a scattare continuamente finché non ottiene l’immagine migliore. Tanti like e tante approvazioni accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario, ovvero commenti dispregiativi e pochi like condizionano l’umore e l’autostima in negativo.
In una tale ottica, l’Altro esiste solo come proiezione di tutto ciò che può rispondere ad un ritorno di ammirazione (in questo caso l’Altro è considerato bello ed è ricercato) oppure come proiezione di parti del Sé negative e frustranti, ed in quel caso viene eliminato senza esitazione. Se nella prima circostanza esso è bello e ricercato, nella seconda, invece, viene “eliminato”.
La comparsa del narcisismo digitale, simultaneo all’’iperconnessione, ha portato alla nascita di nuovi “disturbi” in qualche maniera legati ad esso, ma non ancora ufficialmente riconosciuti. Vediamone qualcuno:
F.O.M.O
L’acronimo F.O.M.O, dall’inglese “Fear of missing out”, ovvero “Paura di essere tagliati fuori”, indica una forma di ansia sociale, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con gli eventi nel cyber mondo o con le attività che fanno i nostri amici o parenti, per paura di rimanere esclusi da qualunque avvenimento o situazione che ci offra un’opportunità di interazione sociale. Non è una patologia riconosciuta a livello clinico, ma la sua presenza può peggiorare una condizione preesistente di ansia e depressione.
La paura di perdersi qualcosa di interessante costringe i “malati” di F.O.M.O a stare costantemente collegati allo smartphone, controllando i loro o gli aggiornamenti degli stati dei propri contatti. Chi è “afflitto” da F.O. M.O cade in un circolo vizioso senza rendersene conto: egli cerca di riempire la solitudine che prova attraverso i social che solo apparentemente gli danno compagnia, facendolo cadere invece in un senso di solitudine ancora maggiore che cerca di colmare sempre attraverso i social.
Nomofobia
Il termine Nomofobia, la cui etimologia deriva dalla contrazione di “no-mobilephobia”, è un neologismo che si riferisce all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad Internet o al 4G.
In realtà, sarebbe più opportuno considerare la nomofobia come dipendenza piuttosto che una fobia. Secondo lo psichiatra Greenfield, l’attaccamento allo smartphone causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello e piacevole, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo.
Phubbing
Il termine phubbing è un neologismo sincretico, coniato nel 2012 presso l’Università di Sidney dall’australiano Alex Haig. Il vocabolo, nato dalla fusione delle parole phone e snubbing (snobbare), descrive l’atteggiamento di chi, in compagnia di qualcuno, lo ignora a favore del proprio smartphone.
Nato per mettere in contatto, il cellulare sta diventando una sorta di barriera virtuale e psicologica. L’uso eccessivo e in alcuni casi ossessivo dello smartphone, oltre a creare dipendenza, può dunque condurre a conflitti interpersonali, minando il benessere personale e relazionale. Quando un individuo subisce phubbing si sente socialmente escluso e questo conduce ad un bisogno molto forte di attenzione. Invece di recuperare l’interazione faccia a faccia, e ricostruire un senso di inclusione, i soggetti che lo subiscono preferiscono rivolgersi ai social network per riguadagnare quel senso di appartenenza che viene a mancare. Si viene a creare così un circolo vizioso e deleterio che annichilisce i rapporti.
Infine, un breve sguardo sul vamping, ovvero la tendenza a restare connessi sui social per l’intera notte. Si tratta di un fenomeno che coinvolge per lo più i ragazzi che sembrano vivere la propria vita sociale e social nelle ore notturne, sentendosi poi stanchi, fiacchi e inconcludenti nelle ore diurne, nelle quali dovrebbe espletarsi la vera vita adolescenziale.
Il bisogno di ribellione spinge i giovani ad aspettare la quiete notturna per collegarsi ed effettuare ciò che non è concesso durante la giornata (ad esempio fare binge watching, chattare o postare contemporaneamente foto e selfie), liberandosi così dal controllo genitoriale. I ragazzi sperimentano così una sensazione di libertà e un piacevole senso di autonomia, sentendosi padroni della propria vita. Inoltre, l’essere coinvolto in multichat notturne, fa sperimentare al ragazzo la soddisfacente percezione di essere parte di un gruppo unico, sentendosi così speciale.
Il vamping provoca in realtà conseguenze dannose quali: disturbo del sonno, basso rendimento scolastico, irritabilità, stanchezza, episodi di cybersickness ovvero nausea, vertigine, mal di testa, senso di confusione causati dalla lunga esposizione all’ausilio elettronico.
Infine, tra i tanti effetti negativi sopra citati, troviamo un affaticamento oculare scatenato dalla cosiddetta luce blu presente nei dispositivi elettronici che, oltre a portare con sé vari problemi alla vista, altera la secrezione della melatonina che regola il ciclo sonno-veglia, e quindi impedisce l'addormentamento.
Cosa succede quando i like non arrivano?
La risposta è, forse, la stessa che si nasconde dietro al disturbo narcisistico di personalità: la persona sperimenta un senso di vuoto, di bisogno compulsivo a cercare ammirazione, apprezzamento che si rivela, dunque, ancora una volta come una mancanza di autostima, di assenza di fiducia in se stessi, un “vuoto” di vivere ed un bisogno enorme di conferme esterne. Un apprezzamento sui social significa che si è stati visti: “Piaccio, dunque esisto”.
Per fortuna però, per qualcuno, le esperienze “vissute e basta”, non sono ancora considerate prive di valore o inesistenti, ma in un futuro, per alcuni, potrebbero diventarlo. Un giorno, si potrebbe cominciare a pensare che, se qualcosa non è stato fotografato e condiviso, non sia davvero accaduto. Sarebbe il caso di augurarci che quel momento non arrivi mai.