Vi è mai capitato di osservare un’anatra nuotare in un laghetto? A guardarla da fuori è così aggraziata, sembra scivolare sul pelo dell’acqua. Ma se potessimo osservare cosa accade sotto la superficie, vedremmo che nuotare le costa un grande sforzo: le zampe si muovono freneticamente per permetterle di restare a galla.
Lo stesso accade a molte persone che in apparenza sono calme e tranquille, mentre in realtà stanno attraversando un periodo di forte stress e tumulti interiori. È quella che gli studiosi della Standford University hanno descritto come “sindrome dell’anatra galleggiante”.
Inizialmente questa definizione veniva applicata agli studenti universitari che si sforzavano di mantenere un’immagine rilassata mentre in realtà erano sottoposti a duri sforzi. È però possibile allargarla a un’enorme platea di persone, che dietro una facciata serena nascondono sofferenze e difficoltà.
Mantenere un aspetto tranquillo e positivo potrebbe essere interpretato come un atto di resilienza, un modo per affrontare i problemi cercando di restare a galla, proprio come un’anatra in un lago. Tuttavia questo sforzo ha un prezzo. Ecco quali sono le possibili conseguenze della “sindrome dell’anatra galleggiante”:
Fingere che tutto vada bene non è affatto semplice. Comporta infatti un enorme sforzo a livello emotivo. Controllare la propria postura, i propri atteggiamenti, le proprie espressioni facciali e le proprie parole pone la persona in uno stato di tensione costante, il quale comporta una stanchezza che nemmeno il riposo riesce ad alleviare.
Le persone che soffrono della “sindrome dell’anatra galleggiante” vivono nella paura di essere scoperte. Hanno paura che confessare il loro dolore le metta in una posizione di inferiorità, le renda vulnerabili. Questo tentativo di interpretare un ruolo che non appartiene loro genera ansia.
Secondo uno studio dell’università di Cambridge le persone che soffrono della “sindrome dell’anatra galleggiante” sviluppano una profonda frustrazione. Si aspettano che i loro sforzi per apparire sicure di sé portino dei risultati a livello professionale e sentimentale, e se questo non avviene precipitano nello sconforto.
Quando ci si convince che il proprio valore dipenda da quanto si riesce a reggere la facciata, ogni errore mina la stabilità emotiva. Ogni cedimento al dolore, allo stress e alla frustrazione mette in discussione l’immagine di sé. Ecco allora che l’autostima traballa.
Le persone che fingono di stare bene si disconnettono dalle proprie emozioni. Perdono col tempo la capacità di riconoscerle e affrontarle, e quindi sono sempre meno in grado di gestire il loro disagio.
Come si affronta la “sindrome dell’anatra galleggiante”? Cambiando mentalità: perché esprimere il dolore dovrebbe essere una colpa? Perché restare connessi alle proprie emozioni dovrebbe minare l’autostima? È vero che viviamo in un mondo di squali, pronti ad approfittare della debolezza altrui, ma se non cominciamo in prima persona a rivendicare la legittimità del dolore non andremo da nessuna parte. È possibile chiedere aiuto. È possibile permettersi di piangere. È possibile aggrapparsi ad amici, famiglia e al partner quando tutto sembra crollare. Gli sforzi che il vivere comporta sono già abbastanza, ed è profondamente ingiusto caricarsi di pesi ulteriori. Siamo sicuri che, dismettendo la facciata allegra, si guadagnerà in autenticità (e magari si scoprirà di avere molti più sostegni di quanto immaginato).
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