Secondo alcuni psicologi anche la felicità si allena, proprio come un muscolo. Alcuni hanno elevato a fulcro della loro attività, in modi più o meno ortodossi, proprio questo tema: come coltivare la gioia.
Già Epicuro, celebre e contestatissimo filosofo greco del III secolo a.C, metteva al centro della propria attività speculativa cosa fosse la felicità e di come ottenerla.
Epicuro ebbe moltissimi seguaci che, però, lo malinterpretarono. Nel tempo, l'aggettivo "epicureo" andò a indicare una persona edonista, amante dei beni materiali. In verità al maestro è stato attribuito un detto che va in tutt'altra direzione: «Il corpo chiede di non avere fame, non avere sete, non avere freddo. Chi soddisfa questi bisogni, o pensa di poterli soddisfare, può considerarsi felice come Zeus».
In pratica, secondo Epicuro, è felice chi possiede il necessario. Il "piacere stabile", quello che consente di avere la felicità, è dato infatti dalla soddisfazione dei bisogni naturali e necessari. Un esempio è il cibo, il quale dà gioia perché calma la fame. Il cibo può essere semplice e spartano, o raffinato, raro e prelibato. Non possiamo però illuderci di avere bisogno di quest'ultimo. Mangiare cibi prelibati è un "piacere instabile", perché non potremo soddisfarlo sempre e per sempre, e non fa parte della felicità.
Una filosofia, dunque, non propriamente edonistica, al contrario. Epicuro sembra dire che la felicità sta nell'avere quello che ci serve, sobriamente.
Ma torniamo agli psicologi del nostro tempo, alcuni dei quali non si distanziano troppo da i dettami di Epicuro. Che felicità dobbiamo preferire, suggerisce ad esempio la dott.sa Marianna Berizzi: la felicità dell'adrenalina o la felicità della serotonina? La felicità intesa come un "flash" improvviso oppure la felicità intesa come "un profumo che ci avvolge durante tutta la giornata"? Sembra sempre che la più realistica sia la seconda, che è anche forse la più controllabile.
Uno dei corsi più seguiti in assoluto all'università statunitense di Harvard è quello di "psicologia positiva". Una prima osservazione è che in alcune professioni ad elevata responsabilità, come ad esempio l'avvocatura, il pensiero negativo sia indispensabile. Un avvocato, per essere bravo, deve allenarsi a trovare il pelo nell'uovo, immaginando sempre il peggiore scenario possibile. Molti di questi professionisti allenati al pensiero negativo sono però più propensi a portarlo con sé nel privato, anche nella propria famiglia, sperimentando un maggior tasso di separazioni o di depressione individuale. Al contrario, secondo la psicologia positiva, allenarsi al pensiero positivo dà alla nostra vita una nuova e migliore forma.
Secondo lo psicologo Michele Crossley, la depressione deriva spesso da una "storia incoerente", una "inadeguata narrazione di sé". La psicoterapia, allora, aiuta le persone infelici a imprimere una direzione ai propri vissuti, fornisce loro una narrazione con cui possono convivere. In pratica, si tratta di rivedere gli eventi passati aggiungendo loro una nota positiva. Secondo Crossley, e non solo, il problema su cui lavorare è proprio il giudizio, negativo o no, che diamo alla nostra vita. E rivedere il passato in questa luce, pare, funziona davvero nella cura. Il dono delle persone felici, infatti, è compiere questo processo da sole.
Un altro psicologo, Lyubomirsky, ha dimostrato che le persone naturalmente felici reinterpretano gli eventi in modo da preservare e conservare la propria autostima.
Parlando di "consigli in pillole", ecco cosa gli psicologi positivi suggeriscono per cambiare subito la nostra autonarrazione:
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