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    Selfie dysmorphia: ossessione della generazione millenium, e non solo
    Se un selfie è “per sempre” allora deve essere perfetto: inquadratura, luci, posa vanno studiati nei minimi particolari. E cosa, se non un filtro, riesce a permetterlo? Sono stati proprio i filtri a indurre il chirurgo estetico britannico Tijion Esho, a coniare il termine “selfie dysmorphia”: vediamo cos’è e come possiamo frenare questa ossessione sempre più diffusa nelle generazioni odierne.

    L’ossessiva ricerca dell’idea di una perfezione al confine tra fantastico e reale può rappresentare l’innesco del disturbo di dismorfismo corporeo.

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    Questa psicopatologia è classificata tra i disturbi ossessivo-compulsivi e si manifesta attraverso un’eccessiva preoccupazione per un proprio difetto fisico. Si tratta di una grave condizione mentale il cui studio si è intensificato proprio negli ultimi due decenni. La sua diffusione è ancora sottovalutata, nonostante diversi studi epidemiologici abbiano mostrato essere più comune di anoressia nervosa e schizofrenia.

    Da qualche parte, il Dottor Esho aveva notato che i suoi pazienti, sempre più giovani, si presentavano alle sue cliniche di Londra e Newcastle, non più con foto di celebrità, ma con i propri selfie chiedendo di assomigliare a quell’immagine manipolata dai filtri dei social. La Società Italiana di Medicina Estetica ha rilevato che oltre il 40% dei giovani italiani (dai 18 ai 29 anni) ricorrerebbe a interventi estetici e di chirurgia plastica per migliorare il proprio aspetto fisico. Gli interventi più richiesti riguardano il naso, le palpebre ed iniezioni di filler e botulino a labbra e zigomi.

    L’età di esordio del disturbo si attesta intorno ai 16 anni, manifestandosi nelle donne attraverso un disturbo alimentare e negli uomini con un’eccessiva preoccupazione legata ai genitali.

    Essere un millennial vuol dire avere un’identità digitale perfetta e percepirsi come deformati e ciò attiva due sistemi motivazionali interpersonali: il sistema di attaccamento e il sistema di rango. Il primo, è caratterizzato da comportamenti compulsivi per controllare il proprio corpo, da tensione e da rabbia costante; il secondo, dall’isolamento rancoroso derivato dall’invidia, dalla paura del giudizio altrui e la tristezza che segue una delusione.

    I social media hanno cambiato profondamente non solo il nostro modo di comunicare, ma anche il nostro modo di percepirci. Lo sappiamo già e ne sentiamo discutere ampiamente ovunque, in tv, in radio e su internet: siamo bombardati costantemente da immagini patinate, ritoccate, e il senso di inadeguatezza a volte è dietro la porta. Basta aprire il Play Store e digitare “rimozione dei difetti” per vedere decine di app che promettono di modificare le foto secondo le proprie esigenze: modellare fianchi, naso aquilino, macchie della pelle o occhiaie.

    Cosa cela questo bisogno irrefrenabile di modificare la propria immagine per poi condividerla? Secondo alcuni psicologi e sociologi ciò nasconderebbe bassa autostima, la voglia di piacere a tutti i costi, sicuramente una percezione distorta del proprio corpo reale.

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    La percezione corporea si crea in base alle relazioni con gli altri e alla valutazione sociale interiorizzata. È importante nella formazione dell’identità psico-fisica il rapporto con l’altro. Oggigiorno tali rapporti vengono a crearsi e instaurarsi all’interno dei social network.

    Su Internet non c’è il corpo dell’altro, non c’è integrità, ma un’immagine mentale corporea del corpo e dell’altro che sostituiscono ciò che sono o che mettono in scena (ricordi, riproduzioni, fotografie).

    Attraverso i social e app di post editing la perfezione è a portata di clic. Come in uno specchio distorto, lo schermo dello smartphone dopo un’attenta eliminazione degli aspetti corporei sgraditi di sé restituisce un’immagine felicemente pulita.  C’è chi attraverso i filtri e app di photo editing arriva a distruggere e rovinare i propri connotati per assumerne altri.

    La dismorfofobia pesca nell’immaginario collettivo di una società narcisistica che “rifiuta l’odore delle persone, i vincoli e si rifugia in un’identità con modelli di bellezza che cadono dall’alto”, commenta all’HuffPost il dottor Giuseppe Polipo, presidente dell’Associazione italiana di psicologia estetica.

    In questo modo si genera ossessione, frustrazione, competizione sociale basata sull’apparenza. Il selfismo nasce dall’idea di autocelebrarsi e può creare una mostruosa solitudine.

    Per concludere, il mondo diventa una messa in scena perché conosciamo la realtà attraverso la finzione e in forma di finzione. I social media hanno cambiato la nostra idea di bellezza, contribuendo a farci interiorizzare ideali estetici utopici alimentati dai filtri ma soprattutto dalla visualizzazione di modelli/e con vite al top.

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    Per prevenire la Selfie dysmorphia gli esperti sostengono che la soluzione ideale consista semplicemente nel cercare di evitare di effettuare foto con ritocchi e di lasciarle naturali come nella realtà. In questo modo la mente non viene traviata e si impara a restare veri e ad accettarsi così come si è realmente.

    Alla luce di tutto questo, ogni volta che scattiamo un selfie, ma soprattutto lo riguardiamo, forse vale la pena chiedersi quale sia il costo reale per la nostra vita di aggiungere un filtro.

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     Commenti (1)
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    1. sottileconfine, Roma (Lazio)
      I selfie dell'infelicità. L'esatto opposto di quello che promettono. Non si ha più il coraggio di essere e si preferisce la codardìa dell'apparire.
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