Il tema dell'adeguamento della lingua italiana alle nuove esigenze inclusive della società non è, non può essere un dibattito pacifico (i dibattiti sulla lingua, così come quelli sulla politica, non lo sono mai).
Come la sociolinguistica insegna, le parole non sono mai innocenti: dicono invece molto di noi, dell'ambiente che ci circonda, di come la pensiamo, di cosa ci è stato insegnato. Se è così, allora, la battaglia per rendere la lingua italiana più inclusiva non è una semplice formalità, ma un modo per intervenire sulla realtà che sta dietro e intorno alle parole.
Capofila del movimento per l'inclusività (femminile) nella lingua italiana è la sociolinguista Vera Gheno, la quale ha più volte evidenziato la necessità e la legittimità di declinare al femminile nomi di mestieri che sono stati sempre e solo maschili. La studiosa ha spiegato con precise e puntuali disamine, in più di un'occasione, come ad esempio fosse del tutto lecito per le regole della grammatica italiana utilizzare parole come "ingegnera" e "avvocata". Suonano strane? Ci abitueremo.
La lingua evolve continuamente e già in passato ci sono innumerevoli casi di adeguamento e aggiornamento: forse facero storcere il naso a un po' di gente all'inizio, ma poi attecchirono senza problemi ed ebbero lunga storia e largo uso. Pensiamo solo a tutti i termini stranieri che, dal '200 in poi, sono entrati a far parte della nostra lingua e, quindi, della nostra cultura, oppure ai termini creati di sana pianta nel '900 e che oggi usiamo normalmente.
La battaglia per l'introduzione del "femminile professionale" incontra molte reticenze e stimola dibattiti anche aspri, ma probabilmente sarà vinta con una certa facilità e, tutto sommato, con pochi traumi per i parlanti italiani.
Ma c'è un'altra battaglia che si annuncia molto, molto più complicata e più divisiva: la ricerca del neutro attraverso l'uso di asterischi o shwa. Non solo al plurale, per rivolgersi a una platea di maschi e femmine (problema risolvibile facilissimamente con semplici giri di parole) ma al singolare, per includere chi è transessuale o non si identifica in un solo genere (i "non binari"). Ecco, qui la questione si complica alquanto e Vera Gheno con i suoi libri e i suoi saggi non può più di tanto venirci in aiuto. La studiosa ha ammesso che la proposta dello shwa può risultare interessante ma non ha mai formulato proposte concrete per la modificazione della lingua in questo senso. Perché? Perché sarebbe un cambiamento davvero estremo.
Ammesso che si inizi a utilizzare largamente lo shwa nello scritto (creando terribili effetti a livello di grafica e una certa difficoltà di lettura) come sarebbe mai possibile trasferire questa indeterminatezza nel parlato? Questo sì, sarebbe un trauma molto forte, troppo forte per noi: dovremmo iniziare a parlare una lingua che davvero non sarebbe più la nostra. Chi obietta che lo shwa sia largamente utilizzato in molti dialetti come il napoletano non può avere molto credito: italiano e napoletano sono due cose diverse e comparare mele con pere potrebbe avere poco senso.
Che faremo, quindi, e come ci comporteremo in futuro? La lingua italiana cambierà (come sta già cambiando) solo parzialmente oppure in modo più sostanziale nelle prossime generazioni? E a questo cambio di parole seguirà un cambio di mentalità?
Quel che è sicuro è che la lingua la fanno i parlanti, cioè le persone. Colui che inventò l'esperanto fece un'opera mirabile, ma di fatto l'esperanto non attecchì mai come lingua internazionale (cosa che invece è accaduta all'inglese, che ha molti parlanti in tutto il mondo). Bisognerà studiare, come si è già fatto per i femminili professionali, qualche proposta di adeguamento che sia rispettosa delle regole della nostra lingua, e cioè che la gente comune possa utilizzare quando parla e quando scrive ogni giorno. Da questo punto di vista la strada è ancora da tracciare.
E dal punto di vista dei diritti delle donne, dei transessuali e delle persone non binarie? Considerati gli innumerevoli femminicidi e le violenze contro le persone LGBT cui assistiamo ogni giorno, ogni anno, sembra che la lingua sia solo uno dei problemi, e neanche il maggiore.