È opinione comune (e in generale giustissima) che sfogarsi faccia bene. Tenersi dentro la rabbia e le frustrazioni infatti provoca infatti danni non solo alla mente, ma anche al fisico, originando le cosiddette malattie psicosomatiche. Piangere, urlare, prendere a pugni il cuscino o fare qualsiasi altra azione liberatoria (purché non dannosa per sé o per gli altri) è sacrosanto e non può che aiutare il superamento di un trauma o di una difficoltà.
Alcuni scienziati si sono chiesti, però, se l’abitudine a sfogarsi con gli amici condividendo costantemente con loro le proprie preoccupazioni sia o meno salutare. La risposta, nient’affatto scontata, sembra che sfogarsi con gli amici non faccia bene né a noi né a loro. Infatti la “ruminazione” individuale dei problemi si trasforma, condividendoli costantemente, in una sorta di ossessione collettiva che provoca stress sia nella persona direttamente coinvolta che nell’ambiente che la circonda.
È questa la conclusione di alcuni scienziati come Carli e Paniccia i quali, analizzando il ruolo del dialogo tra amici nella risoluzione dei problemi, hanno distinto le discussioni problematiche ma costruttive dalle pure e semplici lamentazioni (quegli sfoghi di cui tanto abbiamo bisogno). Le lamentazioni che hanno il solo scopo di liberare il dolore, senza evolvere in una ricerca attiva delle soluzioni, aumentano come abbiamo già potuto vedere lo stress individuale e collettivo.
Il sostegno degli amici resta essenziale e lo studio, chiariscono i ricercatori, non vuole sminuire l’importanza del dialogo sincero: l’obiettivo è piuttosto stimolare le persone a ricercare confronti costruttivi, rimanendo aperte a consigli e soluzioni e ricercando il meno possibile il ruolo della vittima. Quindi sfoghi sì, ma costruttivi.
Lo sfogo fine a se stesso resta importante ma, sembra suggerire la ricerca, è bene che si tratti di un momento circoscritto e individuale, mentre le relazioni interpersonali dovrebbero essere orientate, anche nei momenti più difficili, all’ascolto reciproco e non al semplice “monologo”. Si tratta, a ben vedere, di una forma di rispetto per gli altri che non può che risultare positiva sul lungo periodo.
L’amico o l’amica cui ci rivolgiamo, se sente che il suo sostegno è importante e le sue parole possono produrre un cambiamento, sarà certamente gratificato nell’offrire il proprio aiuto, mentre se sarà messo nelle condizioni di sentirsi un ascoltatore passivo si sentirà più facilmente frustrato e sperimenterà la forma di stress cui accennano Carli e Paniccia.
Il sostegno sociale rappresenta, come è ben noto, un ottimo argine nei confronti degli eventi stressanti, tanto che la maggior parte dei terapeuti spinge i pazienti a cercare o definire un “alleato” (familiare, amico o partner) che possa fungere da aiuto e da sostegno durante il percorso. Chiaramente, riconoscere i “diritti” di chi ci aiuta è essenziale per non perdere la bussola trasformando un amico in un’ancora cui aggrapparsi indiscriminatamente.
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