Quando il commediografo anglosassone Alan Bennet entrò a far parte dell’entourage della National Gallery di Londra propose, provocatoriamente ma non troppo, di affiggere un cartello all’ingresso del museo: “Non devi per forza apprezzare tutto quello che vedrai”.
Beh, anche se dirlo sembra un tabù, chi di noi non si è mai sentito in qualche modo intimorito entrando nell’ambiente quasi liturgico di un importante museo e vedendo un’opera consacrata da centinaia di migliaia di storici e critici dell’arte – un’opera che magari non sappiamo capire o apprezzare come dovremmo? Ma è poi obbligatorio apprezzare Leonardo, Michelangelo o Rubens?
Alcuni quadri ci attraggono irresistibilmente, altri hanno lo strano potere di respingerci, anche se l’autore è un “mostro sacro” di altissima levatura: e non c’è niente di male in questo.
Finché la visita al museo sarà vissuta come un obbligo culturale e le opere famose saranno oggetti sacri cui inchinarsi per forza, lo sbadiglio al museo sarà garantito. Ma se coltivassimo la capacità di protestare tanto quanto quella di stupirci e di emozionarci, forse potremmo iniziare ad avere un approccio più sano nei confronti dell’arte figurativa e non solo.
Certi musei, al pari di certe iniziative artistiche, sembrano studiati apposta per far sentire la gente a disagio – autoaccusandosi di essere gretta e insensibile se non sa apprezzare un’opera e dicendo dentro di sé: “la prossima volta meglio andare al pub”.
Serena Giordano, professoressa all'Accademia Belle Arti di Genova, sostiene proprio questo parere. Secondo la docente sarebbe auspicabile che l’incontro con l’arte diventasse sempre più sincero e perdesse i connotati negativi causati dal timore reverenziale o dai preconcetti. Perché non lasciare che le emozioni positive o negative arrivino prima dei tentativi di comprensione? Perché non allenarsi a guardare prima che a decodificare? Se così fosse, un pomeriggio al museo smetterebbe di essere una noia e diventerebbe una meravigliosa avventura. Ah, naturalmente: anche l’indifferenza è permessa, se autentica.
Altri utili consigli su come guardare un’opera d’arte vengono da Stefano Zecchi, professore di estetica all’Università di Milano. Per approcciare un’opera sarebbe meglio guardarne tutti i particolari iniziando da quelli che colpiscono per primi e non avere fretta di ricondurre tutti gli elementi a una interpretazione esaustiva. Secondo Zecchi infatti, per produrre un giudizio davvero personale sull’opera è necessario interpretarne liberamente i dettagli, poi soffermarsi sul loro insieme e infine ritornare sui particolari. Allo stesso modo, diremmo noi, è sempre meglio lasciarsi “sorprendere” dall’opera semplicemente guardandola, senza pretendere di capire subito di chi è e a quale movimento storico o artistico appartiene e soprattutto prima di averne letto la descrizione sul cartellino. Questi consigli sono utili per evitare i condizionamenti che il giudizio di un esperto o di un curatore può imporre viziando la nostra visione.
Secondo gli esperti, in ogni caso, avere una “curiosità storica” è molto utile per guardare al meglio un’opera d’arte, nonostante Zecchi suggerisca il contrario. Vedere un quadro e cercare di scoprire a che epoca risale, a che corrente artistica appartiene, quali sono i suoi significati nascosti è un gioco in grado di attivare in modo molto potente il piacere cognitivo del guardare. Chiedersi: “che cosa voleva dire l’artista?” e darsi una risposta può essere un vero godimento intellettuale.
Tutti gli amanti dell’arte sperano che andare al museo sia, nell’opinione comune, sempre meno simile all’andare in chiesa e sempre più simile all’andare allo stadio. Il calcio piace anche a chi non conosce tutti i particolari del gioco, ma chi si appassiona e torna a vedere più di una partita inizia piano piano a capire sempre di più e aumenta di conseguenza il proprio godimento. Aguriamoci che sia così anche per le mostre!
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