Quando nel ‘700 i marinai europei esplorano le isole del Pacifico si imbattono in una pratica culturale a loro sconosciuta: il tatuaggio. Ma questa tecnica di decorazione del corpo, in Europa dimenticata da tempo, non è mai stata appannaggio di un solo popolo, anzi, in tempi antichi era diffusa in tutto il mondo. Una delle mummie più antiche d’Europa, trovata sul confine italo-austriaco e risalente all’età del rame, era infatti tatuata: stiamo parlando di Otzi (5300 a.C), esposto attualmente in un museo di Bolzano. I tatuaggi di Otzi erano molto semplici: linee tracciate con una punta affilata sulla pelle e tinte con polvere di carbone. Secondo gli scienziati, che hanno notato degenerazioni ossee in corrispondenza dei tatuaggi, il loro scopo era terapeutico. Probabilmente gli uomini pensavano di poter assorbire, tatuandosi, delle sostanze curative (il carbone stesso o altro).
Nelle civiltà antiche il tatuaggio era utilizzato un po’ ovunque anche a scopo votivo: si tatuavano gli antichi egizi, i celti, i britanni… i romani invece, per gran parte della loro storia, non hanno utilizzato questo mezzo di espressione. A diffonderlo, sorprendentemente, sarebbero stati i cristiani, che si tatuavano la croce sulla fronte per ostentare la propria fede. Una testimonianza eloquente di questo è data dalla necessità per un antico papa, Adriano, di abolire esplicitamente i tatuaggi (787 d.C.).
Nel Medioevo, in Europa, i tatuaggi non sono più in uso, se non in via del tutto eccezionale e per uno scopo puramente pratico: sembra che i primi crociati si tatuassero (una croce, neanche a dirlo) in modo da poter essere riconosciuti come cristiani se uccisi in battaglia e spogliati dei loro averi: in questo modo avrebbero potuto sperare in una degna sepoltura religiosa, anche nella peggiore delle sorti. Anche i criminali erano tatuati, o meglio, marchiati per essere riconosciuti.
Il tatuaggio, per gran parte della storia umana, è stato una pratica dolorosissima: l’incisione della pelle, lungi dall’essere praticata con i sottili e precisi aghi di oggi, corrispondeva a una vera e propria ferita, un taglio ottenuto con lame di pietra, di osso, di conchiglie sagomate (era così ad esempio a Samoa). Tatuarsi richiedeva, insomma, parecchia forza di sopportazione e per questo, in tante culture extraeuropee, rappresentava una prova di forza. A Samoa era diffuso un tipico tatuaggio total-body chiamato Pe’a che richiedeva cinque giorni e molto dolore per essere eseguito. Arrivare fino in fondo senza un lamento era un’impresa e chi riusciva era festeggiato dalla comunità.
Oltre che come prova di forza in alcune culture il tatuaggio era utilizzato come segno distintivo della persona. In Nuova Zelanda è ancora oggi diffuso un tipico tatuaggio chiamato Moko che per molto tempo è stato utilizzato dalla popolazione locale come una sorta di firma: sotto i trattati le persone non scrivevano il proprio nome, ma disegnavano una replica del proprio Moko.
I tatuaggi giapponesi, oggi apprezzatissimi, hanno un’origine curiosa: sembra che si siano diffusi come un segno di ribellione ad antiche leggi che vietavano alle persone di basso rango di portare kimoni decorati. Non è un caso che la Yakuza, la mafia giapponese, abbia sempre utilizzato con abbondanza i tatuaggi, anche in versione “total body”. Simboli che oggi vediamo tatuati spesso come ad esempio la carpa nascono proprio in questo contesto: il pesce era un simbolo di forza e perseveranza.
La storia del tatuaggio moderno comincia nel 1891, quando l’americano Samuel O'Reilly brevetta la prima macchinetta elettrica per i tatuaggi: da allora non occorse più recarsi presso gli artisti tradizionali sparsi qua e là per il mondo e anche gli europei reimpararono a tatuare. La pratica iniziò a essere molto meno dolorosa e quindi si diffuse maggiormente, anche se non subito fu accettata dalla borghesia occidentale.
Ancora negli anni ‘20 del ‘900 le persone tatuate erano attrazioni da Circo Barnum e venivano esposte come curiosità al pubblico pagante. Per il resto, a tatuarsi in quell’Occidente di un secolo fa erano solo gli sbandati e gli esclusi: i marinai che entravano in contatto con culture diverse e le assorbivano, e magari una volta tornati in patria si facevano notare per le loro stranezze, la propensione all’alcool, la vita sregolata; per non parlare dei criminali, un’altra categoria da sempre rigettata dalla società e da sempre sensibile alle “prove di forza” rappresentate dai tatuaggi.
Dobbiamo aspettare gli anni ‘70 e ‘80 perché giovani ribelli come i punk e i bikers recuperino un marchio d’infamia, come ormai era pensato il tatuaggio, e lo rendano una vera e propria moda. Oggi il tatuaggio è così diffuso da non essere più considerato un atto di ribellione, ma una semplice decorazione del corpo. Questa decorazione può essere fatta secondo stili diversi, attinti dalle culture tradizionali sopravvissute (maori, giapponese…) o dalle “scuole” euro-americane dell’ultimo secolo (old school, realistico…). Il significato del disegno è molto personale e smette di seguire un vocabolario condiviso, e ciò è una rappresentazione dell’individualismo della società dei consumi, dove ogni persona fa storia a sé.