Oggi, quando parliamo di isolamento sociale, pensiamo principalmente alla condizione obbligata di chi ha contratto il Covid e deve rimanere in casa, oppure alla prevenzione della malattia stessa tramite una riduzione dei contatti stretti. L’isolamento sociale, in realtà, è una condizione ben più complessa e permanente, con la quale sempre più persone stanno facendo i conti nel mondo occidentale: la sensazione (o la triste consapevolezza) di essere soli, senza poter contare su solidi appoggi nel mondo esterno.
Non sono molti i Paesi del mondo che redigono dei report sulla solitudine dei loro cittadini. Uno dei pochi che lo fa, gli Stati Uniti d’America, ha nel suo archivio dei dati preoccupanti: il numero delle persone che sostengono di essere sole è duplicato negli ultimi 30 anni. Se prima il “tasso di isolamento sociale” statunitense era di circa il 20%, oggi siamo al 40%.
Non ci stupiremmo nel constatare un trend simile anche in Italia. È un fatto che la solitudine tocchi persone di qualsiasi età: dagli anziani ai bambini. Per qualcuno, l’isolamento sociale è effettivo: non si ha nessuno su cui contare, nessuno da chiamare quando si ha bisogno; per qualcun altro, l’isolamento è più che altro affettivo, psicologico.
Sono in molti a sostenere che questo sia il prezzo da pagare per il progresso: libertà vuol dire individualismo e individualismo vuol dire solitudine. Tutto ciò è vero e in parte inevitabile, ma non significa che non sia necessario opporsi il più possibile a questa triste tendenza.
Diversi studi dimostrano, infatti, quanto l’isolamento sia deleterio per il corpo e per la mente delle persone. Gli anziani soli tendono a morire prima del tempo e anche i bambini cresciuti in solitudine corrono maggiore rischio di ammalarsi dopo i vent’anni. Altri studi calcolano addirittura che chi vive in una forma di isolamento piuttosto grave abbia addirittura il 30% in più delle possibilità di morire nei successivi sette anni rispetto a coloro che vivono in un contesto sociale attivo.
Tutto questo è molto preoccupante, ma chiariamo bene che cosa significhi isolamento. Non si tratta assolutamente di vivere da soli o di essere single: si tratta di possedere un buon livello di interazioni sociali. L’individualismo della società moderna ha portato, con l’allentamento degli obblighi sociali, una rivoluzione degli stili di vita e della libertà di scelta che è anche positiva: nessuno più ci costringe a sposarci o fare molti figli, e in effetti è più che giusto rispettare le scelte personali in questo senso. No, l’isolamento di cui parliamo è una condizione del cuore, più che un’evidenza materiale.
Il tanto vituperato internet può essere, secondo gli esperti, uno degli strumenti che possiamo piegare a nostro favore per recuperare le preziose interazioni che talvolta mancano. Attraverso i potenti mezzi di espressione dati dal web (social, siti d’incontri, ecc) tante persone possono scoprire che la loro solitudine è condivisa da molte altre e organizzarsi per porvi rimedio insieme. Non è un caso che siano allo studio nuove forme di “vicinato attivo” che passa tramite il web. Su piattaforme come linkages o i semplici gruppi Facebook di quartiere tutti hanno la possibilità di chiedere una mano ai propri vicini ed essere aiutati gratuitamente. In alcune città italiane esistono anche servizi offline simili, come il cosiddetto “maggiordomo di quartiere”. Internet serve anche a riannodare ciò che si è rotto nel tempo, come la possibilità di incontrare nuovi amici e nuovi amori o riallacciare i rapporti con le persone del passato. Non è una questione di strumenti, quindi, ma di sforzo collettivo affinché la libertà data dall’individualismo moderno non si trasformi in un cappio. Tutti possiamo fare qualcosa e dovremmo impegnarci in questo senso, dando una mano a chi ne ha bisogno!