Il perdono ha un ruolo di primo piano nell’ambito religioso, ma anche la psicologia lo considera uno strumento fondamentale di risoluzione dei problemi personali e interpersonali. Un programma terapeutico piuttosto famoso, quello dei “dodici passi”, ha nel perdono il perno centrale intorno a cui si sviluppa l’intero discorso.
In genere ancor oggi tanta psicologia sostiene che arrivare al perdono possa rappresentare la liberazione dai disagi e dai problemi: perdonare un genitore che è stato assente, un partner che ha tradito, un amico che è stato conflittuale significherebbe riportare la pace prima nel cuore della persona ferita e offesa, e poi anche nel suo ambiente.
L’idea da cui parte questo impianto psicologico è che tutti facciano sempre del proprio meglio, e che anche gli errori più madornali siano agiti da persone che inconsciamente credono di far bene. La filosofia collegata a questo concetto potrebbe essere considerata “socratica”, in quanto l’idea è che l’errore sia figlio di una mancanza di coscienza del bene piuttosto che da una volontà di far male. Le persone agirebbero in modo sbagliato perché avrebbero imparato delle strategie di difesa quando erano piccole e non sarebbero in grado di liberarsene completamente. Per questo sarebbe necessario riconoscere i loro limiti e perdonarle.
Ma è davvero sempre giusto e necessario perdonare? Secondo una visione delle relazioni un po’ più pessimista ma altrettanto legittima, non sempre è sano dimenticare le offese. Se perdonare significa resettare il rapporto tra due persone, in modo da riportarlo a come era prima della rottura, è virtualmente possibile che il carnefice rimetta in atto gli stessi meccanismi del passato e faccia nuovamente del male alla vittima. Si metterebbe così in atto più facilmente – e per di più con una giustificazione apparentemente corretta – il meccanismo tristemente noto come “coazione a ripetere”.
Recenti studi psicologici hanno riportato alla luce il ruolo fondamentale della rabbia nel superamento dei traumi dati da pesanti offese. Chi si permette di esprimere la propria rabbia sarebbe più resiliente di chi invece si sforza di reprimerla. Ma la rabbia è il contrario del perdono!
In realtà nessuna delle due teorie prima esposte cancella l’altra, anzi, sarebbe necessario integrarle l’una con l’altra. Le recenti scoperte dimostrano che la rabbia (il non-perdono) ha una funzione adattiva, cioè buona, nelle prime fasi dopo un’offesa. Solo una volta che ci si è messi al sicuro dal carnefice, ma anche dalla propria stessa tendenza a essere vittime, è possibile giungere al perdono.