Negli ultimi anni non sono stati pochi i dibattiti accesi dalle culle per la vita e da chi ha scelto di utilizzarle. L’ultima in ordine di tempo è la storia di un bambino di sei mesi di Aprilia, in provincia di Latina, che è stato affidato con un sistema simile, in ospedale. L’appello del personale medico è stato, secondo molti, imbarazzante: «Se cambia idea siamo qua» è stato detto in televisione, rivolgendosi all’anonima madre. Addirittura sono stati diffusi a mezzo stampa dettagli che potevano restare privati: note sulle condizioni igieniche del bambino, che sono state definite discutibili, a titolo di esempio. C’è anche chi ha mandato in onda in televisione i video delle telecamere di sicurezza (per riconoscere la madre?).
Queste azioni da parte dei media sono offensive nei confronti di chi sceglie di lasciare in affido il proprio bambino in anonimato, secondo quanto consente la legge. Sono anche pericolose: lanciando ondate di discredito sulle madri che affidano (non abbandonano!) il loro figlio disincentivano altre donne a fare lo stesso per paura di ritorsioni. E non siamo così ingenui da pensare che facendo sentire in colpa le madri in difficoltà queste terranno il bambino: il rischio è piuttosto che prendano vie illegali per affidarlo.
Non è moralmente giusto gettare pubblico discredito su persone che scelgono di agire nel rispetto delle leggi, qualunque sia il loro campo di applicazione. Il DPR 396/2000 garantisce il diritto per le donne di partorire in anonimato se lo desiderano. Dopo questo momento, in base all’articolo 11 della legge 184/1983, è possibile per le neomamme avere un momento di riflessione, non superiore ai due mesi, dopo il quale scegliere se tenere o dare in affido il figlio.
Purtroppo le pressioni sociali che ruotano intorno al parto anonimo e all’affido del neonato stanno avendo un impatto sul funzionamento di questo sistema: dai 642 casi del 2007 siamo passati ai soli 173 casi nel 2021. I bimbi che non sono stati affidati per paura, ora dove sono e come stanno? Perché è stata negata loro la possibilità di avere condizioni di vita migliori?
Una alternativa al parto anonimo, quando è trascorso il periodo prescritto, sono le famose culle per la vita. Si tratta di incubatrici riscaldate e collegate a un allarme che possono essere installate negli ospedali o anche in istituti cattolici. Basta lasciare il bambino in questo giaciglio, che mette in comunicazione esterno e interno di una struttura, e il personale sarà subito avvisato, prenderà il bambino e gli dedicherà immediatamente le sue cure. Le donne che scelgono di lasciare i loro figli nelle culle per la vita sono protette dalla legge e sono escluse dal reato di abbandono di minore.
Le moderne culle per la vita non sono altro che un’evoluzione più tecnologica della “ruota degli esposti”, utilizzata in Italia a partire dal Medioevo e fino agli anni ’20. Anche queste “ruote” mettevano in comunicazione l’esterno di un edificio con l’interno, garantendo la privacy delle donne: un valore che è rispettato da sempre e che solo al giorno d’oggi, curiosamente, viene messo in discussione. Anche le antiche ruote erano collegate a campanelli e facevano in modo che il personale dedicato intervenisse subito per prendersi cura del neonato. Il bambino di Aprilia è stato lasciato nella sala d’attesa di un ospedale perché in quella città non ci sono culle per la vita e anche questo fa riflettere.
È importante parlare di culle per la vita in modo informativo e rispettoso perché le donne che non riescono a garantire una vita degna ai loro figli possano utilizzarle. Questi dispositivi sono stati ripristinati negli anni ’90, dopo tanti anni da quando Mussolini aveva messo fuori legge le ruote degli esposti, perché ci si accorgeva che sempre più bambini venivano lasciati in strada o nei cassonetti. Chiudere gli occhi di fronte a un fenomeno che esiste ed è sempre esistito e scatenare cacce alle streghe non fa altro che andare contro alla salute dei bambini prima e delle madri poi.