Non sono molti i poeti contemporanei a un gigante come Dante che sono riusciti a rimanere impressi nella memoria collettiva. Se eccettuiamo le “tre corone” (Dante, Petrarca e Boccaccio) quel che rimane è una somma di ottimi artisti conosciuti dalla ristretta élite di chi ha frequentato la facoltà di lettere. Da questa regola si svincola un nome, quello di Cecco Angiolieri, che è riuscito a ritagliarsi una fetta di fama imperitura e ancora conquista i cuori dei lettori contemporanei con le sue liriche più famose.
Chi non conosce la frase “S’i fosse foco arderei l’mondo”? C’è un motivo per cui la poesia che così comincia è così celebre: è schietta, autoironica, cruda e cinica, del tutto priva dell’aura che ammanta tanta altra poesia che conosciamo. Cecco Angiolieri è un poeta “guascone”, uno che ama la vita quasi più delle lettere. Pessimo soldato, svogliato nell’arte della guerra, più volte accusato di diserzione; ricco di nascita, rampollo di agiatissimi senesi, ma abituato a “bersi” fino all’ultimo centesimo, amante dei piaceri carnali, un po’ uno di noi (o di una certa parte di noi).
La sua poesia più famosa recita così:
«S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti cristïani embrigarei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre,
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.»
Chi è abituato ad ascoltare De André ricorderà una canzone, molto breve, che mette in musica questo testo di Angiolieri. Tra il poeta duecentesco e il cantautore del ‘900 corre una sorta di filo rosso: la celebrazione della vita e dei piaceri del rango più basso insieme a una certa rabbia che riconosciamo vera e vitale.
Possiamo immaginare Cecco chiuso nella sua camera che scrive in questi versi tutti i motivi per cui ce l’ha con il resto del mondo e allo stesso tempo ci ride su. Probabilmente sa che scandalizzerà molta gente: chi augurerebbe la morte al proprio padre, magari colpevole di avergli negato l’ennesimo prestito da sperperare nel gioco d’azzardo? Eppure chi non ha almeno una volta rivolto, in cuor suo, una pernacchia a tutte le persone della sua vita, una pernacchia ai “potenti” della sua sfera privata e ai “potenti” del mondo intero?
Cecco Angiolieri non è uno scrittore isolato dal proprio contesto: le sue opere rispecchiano i canoni della poesia comica toscana e in particolare appaiono agli studiosi una parodia del Dolce Stil Novo. Nel corso dei secoli sono stati molti, tra studiosi e commentatori, a chiedersi quanto Cecco fosse sincero nel suo scrivere. Sappiamo che i poeti di un tempo erano molto “costruiti” nel loro poetare e che spesso aderivano a dei canoni già presenti risultando falsamente autobiografici. Il Cecco che traspare dalle sue liriche, spendaccione e litigioso, sempre arrabbiato, è verità o fantasia?
Alcuni commentatori contemporanei suggeriscono che forse, nel suo poetare, Cecco fosse decisamente sincero: quella che all’occhio del lettore coevo poteva suonare come una parodia era forse il modo che aveva trovato per esprimere, senza dare nell’occhio, una sua furiosa, «matta e sinistra vitalità». Ecco perché è così amato ancora oggi!