La non corrispondenza tra la nostra autopercezione interiore e la limitatezza, la banalità o addirittura la sgradevolezza che associamo al nostro concreto aspetto fisico è una condizione piuttosto comune. Il filosofo Alain de Botton, autore della serie “School of life”, descrive questa condizione a partire dall’esperienza che molti di noi provano andando al cinema a vedere la trasposizione del loro libro preferito.
Quando leggiamo un libro, secondo de Botton, ci sentiamo liberi di immaginare i personaggi senza attribuire loro un vero e proprio corpo: l’idea che ci facciamo di loro è fluida, in grado di riflettere la molteplicità del loro essere, e quasi mai si ferma a un dettagliato quanto limitato ritratto fisico. Quando però ci rechiamo al cinema vediamo attori in carne ed ossa, spesso famosi, calati nei panni dei nostri personaggi più amati e un pochino, segretamente, ne soffriamo; soffriamo la disparità tra la l’immagine fisica degli interpreti e quella più astratta ed interiore che ci eravamo fatti leggendo.
Questo disagio è lo stesso che molti di noi vivono, in maniera ancora più acuta, quando si guardano allo specchio. A prescindere da quanto possiamo amare o avere imparato ad accettare la nostra immagine, potremmo ritrovarci a pensare che questo corpo, questo volto, non ci corrispondono; se potessimo disegnare la nostra anima la disegneremmo con altre fattezze, altri colori.
In effetti ogni persona, conoscendosi ed analizzandosi, sa di essere molte cose: un misto di umori diversi, di elementi caratteriali anche discordanti, di energie oscure e luminose, “maschili” e “femminili”, “infantili” e “adulte”. L’immagine che lo specchio ci rimanda non riflette la plasmabilità della nostra immagine interiore.
Questo tipo di disagio è estremamente comune nell’adolescenza, quando tutti vivono importanti cambiamenti nel proprio corpo e lo vedono avvicinarsi, piano piano, alla sua forma definitiva: insieme a questa scoprono le forme altrui, le confrontano con la propria, spesso le invidiano. L’adolescenza rappresenta il primo grande confronto con la propria immagine, un confronto dal quale non si esce quasi mai subito vincitori.
Chiaramente, il modo per uscire da questa impasse è uno solo: imparare a familiarizzare con il proprio corpo, anche nel cambiamento dell’adolescenza e in quelli, più pesanti, che si avranno con l’avanzare dell’età: comprendere la funzione del corpo e ringraziarlo per tutto ciò che ci permette di fare, apprezzando la sua forza e anche le sue debolezze, la sua storia, che è anche la nostra.
De Botton, da buon filosofo, propone però anche un’altra strada: dire a se stessi che no, la propria immagine interiore davvero non coincide con il proprio corpo, e va bene così. Questo significa, secondo lui, “basare la propria identità sul rifiuto di accettare questo cosiddetto dono della natura”. Secondo de Botton, considerare il proprio corpo come un’entità infinitamente più banale rispetto alla ricchezza della propria anima può non sortire un effetto depressivo, ma al contrario essere un ragionamento liberatorio.
La liberazione starebbe nel cessare di considerare l’immagine corporea un elemento significativo di sé e anche degli altri: questo porterebbe a una nuova forma di gentilezza e comprensione nei confronti del mondo.
Quale che sia la strada che si sceglie, accettazione o rifiuto, ciò che è importante è la lealtà a ciò che siamo dentro e la comprensione che anche gli altri sono molto di più di ciò che è possibile vedere.
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