La storia dell’applauso, manifestazione che potrebbe sembrarci piuttosto moderna, è in realtà più lunga di quanto potremmo pensare. Le prime tracce di questo comportamento si trovano nella Bibbia: nel Libro dei Salmi, il popolo viene invitato ad acclamare il Signore con il battito delle mani e canti di gioia. Gli storici datano il testo attorno all’XI secolo e quindi ben prima dei Greci che nel V secolo ufficializzarono l’applauso nel contesto delle rappresentazioni teatrali: si hanno notizie di spettatori che esprimevano il loro gradimento non solo con grida ma anche con fragorosi applausi.
I Romani fecero largo uso dell’applauso, sia in ambito ludico (pensiamo agli spettacoli con i gladiatori) che teatrale ma soprattutto nel contesto politico: tra la fine dell’epoca Repubblicana e l’inizio di quella Imperiale, la manifestazione del consenso popolare acquistò progressivamente sempre più importanza; la quantità di applausi rivolti a chi rivestiva una carica politica, dagli incarichi minori fino ad arrivare all’Imperatore, veniva “misurata” per cogliere il grado di soddisfazione della plebe; all’epoca vi erano diversi modi di manifestarlo, battendo i palmi l’uno sull’altro, schioccando le dita o sventolando i bordi della tunica. Più tardi anche in ambito religioso ci si servì di un metodo simile: il gradimento veniva espresso utilizzando fazzoletti o teli di lino che le classi benestanti portavano sempre con sé.
Già le civiltà antiche si resero conto dell’importanza e della necessità di intercettare il consenso del popolo e ciò si concretizzò in operazioni di pilotaggio e poi di acquisto delle manifestazioni di gradimento, fino ad arrivare alla moderna claque. Nell’antica Roma vi erano persone, i cosiddetti laudiceni, che offrivano applausi o altri tipi di gradimento per soldi, un po' come le donne o i bambini prezzolati per piangere alla morte di qualcuno.
L’applauso a pagamento, nei tempi moderni, ricomparve in Europa nei teatri verso la fine del XVI secolo quando furono stilati veri e propri listini prezzi a seconda dell’intensità degli applausi voluti o a seconda del sesso coinvolto: gli applausi delle donne avevano un costo diverso da quelli degli uomini. Dal farlo per soldi a doverlo fare per obbligo, il passo fu breve: in epoche dittatoriali non applaudire poteva costare caro per l’interpretazione che ne veniva data, di non gradimento e ancor più di dissenso. Il dominus di turno doveva necessariamente avere il consenso plebiscitario alla propria persona e quindi ogni manifestazione esteriore veniva attentamente monitorata e interpretata a seconda delle necessità del momento.
La natura dell’applauso, nato come riconoscimento spontaneo e gioioso, venne poi utilizzata anche in circostanze niente affatto ludiche, se pensiamo all’abitudine tuttora presente di salutare con affetto e rispetto, mediante il battere delle mani, una persona non più in vita. Il defunto, ancor più se persona conosciuta e stimata ma anche semplice cittadino, viene omaggiato durante la cerimonia funebre da un applauso di tipo emotivo, che mescola riconoscimento, affetto, senso di perdita. Infine, anche in occasione della laurea, si è diffusa negli ultimi anni l’abitudine di festeggiare il traguardo raggiunto con un applauso gioioso e insieme liberatorio. Tutti questi applausi “comandati” sono la dimostrazione di quanto anche le manifestazioni più semplici acquistino un significato e un valore complesso quando sono inseriti in un contesto sociale regolato.