Immagina che un amico venga da te e ti dica: «Sto seguendo una nuova filosofia. Baso la mia vita sulla ricerca del piacere, bene primario, e sul rifiuto del dolore, male primario!». Cosa gli direste? Forse: «Che banalità: tutti cerchiamo il piacere, a chi piace soffrire?» oppure «Che malafede: non tutto ciò che provoca piacere a te è buono in generale!». Bene, sono le stesse obiezioni che la filosofia epicurea ha raccolto da quando è stata diffusa la prima volta, più di 2.200 anni fa. Il punto è che spesso l’insegnamento di Epicuro è stato presentato – e criticato – in modo deviato e banalizzato. Ma andiamo con ordine.
Epicuro di Samo (341 a.C. – 270 a.C.) nasce in un ambiente intellettuale fervido di discussioni intorno alla natura dell’uomo, al suo rapporto con la natura e con gli dei, al valore della morale civile. Sente, probabilmente, che il modo in cui i suoi contemporanei discutono di etica è piuttosto viziato: cosa può farci davvero capire con sicurezza dove stanno il bene e il male? Cosa ci spinge davvero a seguire il primo e rifiutare il secondo? Secondo lui, solo il piacere può aiutarci a distinguere efficacemente il bene dal male: ciò che dà piacere è buono, ciò che dà dolore è cattivo. Semplice? Non proprio.
Ci sono azioni che danno piacere ma, subito dopo, espongono a crudeli dolori: pensiamo a una grande ambizione che culmina in un fallimento o a una forte passione erotica che finisce con un due di picche… o anche solo a una formidabile abbuffata cui segue un’indigestione. Esistono allora piaceri pericolosi, da non considerare totalmente positivi?
Forse hai già capito dove andremo a parare: la filosofia di Epicuro, basata sulla ricerca del piacere e della felicità, è tutt’altro che un invito all’edonismo ma è, piuttosto, una dottrina ascetica. Infatti, se il piacere è bene e il dolore è male, e se la ricerca della felicità di deve basare sul solo bene, occorre andare in cerca di quei piaceri che non celino risvolti dolorosi: dunque piaceri essenziali, semplici, in grado di portare alla pace stabile della mente (l’atarassia). Mangiare per placare la fame, dormire per spegnere la stanchezza, circondarci di buoni amici per colmare il vuoto dell’anima: nient’altro.
Per Epicuro, la massima felicità coincide con l’assenza di dolore fisico, con la tranquillità esistenziale e con l’assenza di paura. Per raggiungere questo stato di pura serenità, è importante coltivare la semplicità dell’esistenza, che non è “buona” per via di una morale fumosa ma solo perché protegge dal dolore. Per completare questa felicità, occorre poi analizzare e superare le paure più comuni che affliggono gli esseri umani.
La più universale delle paure, quella sulla quale Epicuro si concentra, è la paura della morte. Noi potremmo oggi parlare, genericamente, di ansia per il futuro. Secondo il filosofo greco non è possibile essere felici se si è continuamente preoccupati per il domani e dunque occorre allenarsi a vivere nel momento presente, nel qui-e-ora, evitando di fare troppi piani. L’epicureo di ieri e oggi è una persona che dà una grandissima importanza al momento presente e che, semplificando un po’, “vive alla giornata” assaporando ogni momento come se fosse l’ultimo.
Nei secoli Epicuro si è guadagnato una quantità incredibile di detrattori: ateo, lo definiva qualcuno, immorale, qualcun altro. Il suo insegnamento è ancora oggi provocatorio, profondo, difficilissimo da mettere in pratica nella sua estrema razionalità. Lo spunto principale che possiamo trarre da esso è l’importanza della semplicità, unita a quella del momento presente, dato che il tempo è la nostra principale ricchezza. Epicuro, ricordandoci che “dove c’è la morte noi non ci siamo, ma dove noi ci siamo non c’è la morte” vuole spingerci a valorizzare le incredibili, potenti energie di cui siamo dotati in ogni momento della nostra vita e ricordarci di indirizzarle verso il bene.