Qualche tempo fa una lettrice ci ha suggerito di scrivere un articolo riguardo al legame tra cibo e affettività. In effetti questo collegamento è universalmente noto ed ma ben più complesso di quanto appaia a primo acchito. Trasferire nel rapporto con il cibo bisogni che non hanno niente a che fare con la necessità di nutrirsi è qualcosa che quasi tutti noi abbiamo sperimentato prima o poi. Perché succede? Le ragioni sono sia biologiche che culturali.
I cibi ricchi di carboidrati, zuccheri e grassi stimolano la produzione delle endorfine, i cosiddetti “ormoni del piacere”. Questi ormoni si attivano ogni volta che compiamo un’attività percepita dalla natura come benefica: le endorfine si attivano quando mangiamo, sì, ma anche quando facciamo l’amore, quando semplicemente ci abbracciamo, quando vediamo una persona cara… anzi, sembra che il bisogno di cibo non sia proprio il primo e il fondamentale, per noi come per gli animali.
Negli anni ‘60 lo psicologo Harry Harlow condusse una ricerca fondamentale sul ruolo delle coccole, degli abbracci per la sopravvivenza. Isolò un cucciolo di macaco dalla sua mamma, consentendogli di muoversi in soli due ambienti: nel primo era presente una ciotola sempre piena di cibo, nell’altro un peluche coperto di pelo. Il piccolo trascorreva accanto alla ciotola solo il tempo necessario per mangiare e passava tutto il resto del tempo abbracciato al peluche. Da questo esperimento Harlow teorizzò che il bisogno di contatto fisico coi simili, insomma, il bisogno di coccole sia fondamentale per la sopravvivenza al pari del cibo.
Abbiamo allora due bisogni entrambi vitali, entrambi incoraggiati dalla nostra biologia: il cibo e il contatto affettivo. Quando si rompe il meccanismo che regola i due bisogni, portando uno a prevaricare l’altro? Per esempio quando sentiamo che il nostro ambiente non ci può offrire le coccole di cui abbiamo bisogno, ma rappresenta invece un mondo ostile e pericoloso. Allora il cibo si trasforma facilmente nel sostituto di quella pace, di quel conforto che manca da altre parti.
È a quel punto che l’alimentazione inizia a diventare un problema anche culturale. Perché alzarsi dal letto di notte per mangiare è un’abitudine che non viene malvista in sé e per sé, ma solo in quanto può portare ad ingrassare. Avere un corpo grasso sembra il segno tangibile di un fallimento e la persona in sovrappeso è vista come poco desiderabile, poco meritevole di amore e compassione. Quindi mangiare troppo provoca sensi di colpa, che portano all’innescarsi di un circolo vizioso pieno di dolore in cui il cibo è il desiderio proibito e mangiare diventa alternativamente un cedere, un fallire e un rivendicare la propria libertà. Alcune persone soddisfano queste stesse esigenze con la privazione volontaria del cibo, che diventa segno tangibile di forza (con il dimagrimento) e di indipendenza da quelle stesse coccole che servirebbero tanto. La matassa si annoda e scioglierla diventa ancora più difficile.
Risolvere i problemi con il cibo parte dall’ammissione che il problema non sta lì ma da un’altra parte. Il cibo, attivando le endorfine, ci permette di coccolarci da soli quando pensiamo che nessun altro lo possa fare: sapere però che abbiamo bisogno di più coccole, e non di più cibo, rappresenta parte della soluzione. Constatare l’insufficienza di carboidrati e grassi come palliativi dell’amore e smetterla di pensare secondo categorie come magro e grasso è fondamentale! Smettere di ricorrere alla forchetta non è semplice perché, secondo molti psicologi, la dipendenza dal cibo è simile a quella che si innesca con le droghe e uscire dal “copione” richiede un grande sforzo. Occorre secondo noi lavorare su quella sorta di autocompiacimento che accompagna la messa in scena del dolore tramite il cibo. Troviamo altri modi di esprimerlo, parlando e soprattutto abbracciando!