Accade più frequentemente di quanto si pensi che, per paura di perdere la propria stabilità personale, ci si “attacchi” a posti e persone ferme nella propria affettività, non sapendo che in realtà, sono i lacci dell’attaccamento all’altro a non favorire la nostra massima espressione. Spesso scambiamo l’attaccamento con l’amore, rimanendo nella gabbia dell’infelicità, piuttosto che prendere atto che sta a noi la responsabilità di scegliere se rinunciarvi o meno. Eppure, amore e attaccamento non sono una cosa sola ma due entità separate, reciprocamente antagonistiche.
Per esempio, l’attaccamento è stato definito come uno dei più “eleganti” dei sentimenti umani, una sensazione estrema di “contentezza, condivisione, di essere una cosa sola con l’altro”. Si è a lungo ritenuto che esso derivi dal timore di restare soli, la cosiddetta “ansia da separazione” e, secondo la maggior parte dei ricercatori in questo campo, sarebbe proprio questa la molla che spingerebbe gli individui a creare e mantenere relazioni affettive.
Attualmente però si ritiene che questo fenomeno sia più complesso e coinvolga meccanismi più specifici. La stessa definizione di attaccamento racchiude in sé il fatto che questo sia un fenomeno eterogeneo: quello per un figlio, o un genitore, è diverso rispetto a quello per la persona amata o per altre figure, ma in ognuno interagiscono meccanismi che implicano il coinvolgimento di molteplici aree cerebrali, quali la corteccia, il lobo limbico, l’ipotalamo, l’amigdala e il sistema nervoso autonomo. L’integrazione tra i vari meccanismi ha lo scopo di preparare l’organismo a rispondere in maniera adeguata a situazioni di particolare vulnerabilità e potenzialmente pericolose, in grado di scatenare reazioni di paura e insicurezza. Sensazioni che destabilizzano il nostro senso di essere al mondo, imbrigliando e “attaccando” la mente in cicli di pensiero che rimandano sostanzialmente al timore di essere autonomi, di camminare sulle proprie gambe, seguendo un’autentica direzione di vita. Per questo, il più delle volte, scegliamo di rimanere in una situazione di comfort emotivo, perché il risvolto della medaglia causerebbe sofferenza.
Tristezza, ansia e angoscia sono sofferenza. Staccarci da ciò che amiamo e ci rende sicuri è sofferenza. È, dunque, nella maggior parte dei casi, l’attaccamento che determina il malessere, è il sintonizzarsi su una determinata frequenza che perpetua la sofferenza, rendendoci vittime passive del dolore, incapaci di divincolarci. Meglio restar fermi in una situazione nota di afflizione piuttosto che muoverci, cambiare e stare ancor peggio!
I motivi che ci spingono a restare in una relazione sentimentale insoddisfacente sembra che non siano legati soltanto al proprio interesse personale, ma in alcuni casi anche ad una componente altruistica.
Da uno studio condotto su un campione di 500 partecipanti monitorati per due settimane, è emerso che quando le persone percepivano il proprio partner come fortemente impegnato nel rapporto erano meno propense a interrompere la relazione. Questo atteggiamento è stato riscontrato anche nelle persone insoddisfatte. Affiora, inoltre, un atteggiamento per cui non si vuole danneggiare i propri partner e ci si preoccupa per ciò che questi realmente vogliono – afferma la ricercatrice Samantha Joel. Il partner infelice e insoddisfatto, di fronte all’impegno dell’altro, spera che la relazione sentimentale possa migliorare. Una cosa che non sappiamo è quanto siano accurate le percezioni dei partner insoddisfatti. “Potrebbe essere che la persona sopravvaluti l’impegno affettivo dell’altro partner e il dolore che proverebbe a causa della rottura” – continua l’autrice. Basare la propria scelta di restare nella relazione sulla dipendenza percepita da parte del partner nei propri confronti e sul suo impegno, potrebbe tuttavia nascondere numerose insidie qualora la relazione sentimentale non dovesse realmente migliorare: il tempo di una relazione non soddisfacente è stato prolungato e di conseguenza le emozioni negative si sono accumulate nel tempo.
Per gli autori rimane ancora aperta la questione se rimanere in una relazione per l’amore nutrito nei confronti di un partner che non ricambia possa essere un fenomeno diffuso, ma concludono con il retorico interrogativo “chi vuole continuare a investire in una relazione con un partner che non vuole realmente starci?
In realtà, ciò che non sappiamo è che la sofferenza nasce dalla mancanza di una profonda accettazione della verità, del timore di quel dolore nel dover rinunciare alla propria libertà nell’ora delle cose, per paura di aprirsi al nuovo e riscoprirsi diversi, in preda al grande oceano della vita che si muove e su cui la mente non ha controllo nell’attimo presente.
La sofferenza non è il sentiero verso una solitudine futura ma, al contrario, è un invito alla libertà presente. Ed è proprio nei recessi più profondi della paura che è racchiusa e ci è data la possibilità di azionarci abbandonando la fissità, così da ritrovare l’energia necessaria per dispiegare le ali affinché possano spiccare il volo. E l’amore diviene il trampolino di lancio. Esso è ciò che permette di recidere le forti funi dell’attaccamento, di vivere serenamente le relazioni e le esperienze che la vita ci riserva. Amore che assolve la sua funzione di guarigione solo quando diventa un vissuto sano, che non ci inchioda al rapporto con l’altro, ma permette di viverlo nella maniera più autentica e libera, in modo da favorire la nostra crescita più profonda.