L’invidia nasce dalla sofferenza causata da un confronto sociale perdente, spesso con una persona simile a sé, in un settore che è rilevante per la persona: per esempio, tra donne, sul campo dell’avvenenza. E’ un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: può essere un’emozione temporale, cioè la “stretta” provata quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, o un sentimento duraturo: uno stato di malessere e inadeguatezza, con malevolenza verso la persona invidiata.
Quando questo sentimento si scatena, l’invidioso mette in atto una serie di strategie di squalifica nei confronti dell’invidiato, nel tentativo di distruggerlo. Si sente talmente piccolo e impotente di fronte al successo altrui, che sente il bisogno di insidiarlo per sminuirlo e lasciarlo in ginocchio per potersi sentirsi superiore. Egli desidera ciò che hanno gli altri e vuole che la persona oggetto d’invidia non possieda ciò che ha, che il suo successo non sia reale.
Tutti abbiamo sperimento l’invidia ma quasi nessuno la confessa perché essa non potrà mai essere vista di buon occhio. Si può ammettere, infatti, di farsi prendere dall’ira, di crogiolarsi nella pigrizia o di soffrire per gelosia, ma non di essere rosi dall’invidia. Quest’ultima, è un’emozione negativa rifiutata perché ha in sé due elementi “disonorevoli”: l’ammissione di essere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro, senza gareggiare a viso aperto, in modo subdolo.
Ecco perché lo sguardo malevolo dell’invidioso è sempre evitato: non a caso, la parola latina invidia, rimasta uguale, ha la stessa radice di videre, vedere. Lo stesso Dante, nella Divina Commedia, colloca gli invidiosi in Purgatorio, con le palpebre cucite da fil di ferro: “così sono chiusi gli occhi che invidiarono e gioirono dalla vista dei mali altrui”.
Un’altra caratteristica dell’invidia che la rende difficile da ammettere, persino a se stessi, è che essa si prova soprattutto per chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Bersaglio d’invidia diventano allora persone che ci sono vicine e a cui vogliamo bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli. Perché? L’uguaglianza di opportunità rende doloroso l’essere inferiore rispetto ai successi di un suo simile: proviamo a pensarci, si invidia il collega che è stato promosso, non il direttore generale.
L’invidioso, dunque, vive costantemente in uno stato di malessere perché avverte il proprio senso di inferiorità e, nel contempo, è divorato dall’angoscia di voler distruggere l’altro. A ben guardare è come se egli lanciasse tre messaggi:
Ecco perché l’invidia è messa al bando e condannata dalla società: implica ostilità ed è socialmente distruttiva: devasta non solo la persona cui è diretta, ma anche chi la vive, perché ha un continuo senso di inadeguatezza. Chi invidia prova frustrazione, ha la sensazione che il vantaggio dell’altro non sia meritato e pensa di non riuscire a ottenere la stessa cosa. Inoltre, chi tende a essere invidioso, invece di apprezzare le proprie abilità in senso assoluto, rischia di valutarle solo se confrontate con quelle di altri che appaiono migliori e questo diminuisce l’autovalutazione.
Se provare invidia è una cosa così negativa, perché siamo portati a farlo? La scienza suggerisce che questo sentimento, seppur sgradevole come la paura, ci prepara a reagire a un pericolo. È un campanello d’allarme, sviluppato come “sostegno” nella competizione per le risorse (cibo, partner ecc.), un meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e ci dà la spinta per ottenere lo stesso.
Nel corso dell’evoluzione si è rivelata un beneficio: gli individui invidiosi che giudicavano il loro successo sulla base della posizione rispetto ai rivali avrebbero investito più sforzi per raggiungere status e risorse; i meno attenti, invece, sarebbero rimasti indietro, sfavoriti nella selezione naturale.
L’invidia dunque può essere anche benigna, specie quando porta all’emulazione: in questo caso, canalizza le energie per cercare di avere un bene o il riconoscimento che è stato dato agli altri. E’ una spinta a metterci in moto, a fare appello a tutte le nostre capacità per raggiungere un traguardo.
Ci sono anche altri casi in cui la competizione è legittima, come per esempio nello sport: chi arriva secondo potrà invidiare chi l’ha superato, ma si allenerà per superarlo alla gara successiva.
All’invidia è collegata dunque una duplice valenza, opposta e contraddittoria: maligna e benevola insieme. La verità è che se una persona invidiosa si rendesse conto del suo vero problema e si concentrasse maggiormente sulle proprie capacità, probabilmente smetterebbe di provare invidia e tramuterebbe questo sentimento in ammirazione: un modo sano per valorizzare ed evidenziare i risultati del partner, dell’amico, del parente. Per provarla però è necessario stare bene con se stessi, stimarsi ed essere disposti a valutare positivamente i risultati altrui.