Da un’indagine realizzata in occasione della XVIII Settimana della lingua italiana nel mondo, su circa ottomila italiani di età compresa tra i 18 e i 65 anni, compiuta attraverso un monitoraggio online sulle principali testate di settore, social network, blog, forum e community dedicate al mondo della cultura, risulta che i principali errori grammaticali compiuti dagli italiani sono:
L’apostrofo (68%), davvero uno degli amici più antipatici della lingua italiana. Quando si utilizza? Con tutte le parole femminili, quindi: un’amica sì un amico no. Come mai, allora, è presente nella parola apostrofo, pur essendo maschile? Si tratta di elisione: diventa quindi: l’apostrofo e non lo apostrofo, perché quest’ultima forma è scorretta.
L’uso del congiuntivo (69%). Il congiuntivo, il vero tallone d’Achille di moltissimi studenti e non. Quanti strafalcioni sentiamo ogni giorno anche, e soprattutto, in televisione? “L’importante è che hai superato l’esame”: seppur molto usata, questa è una formula grammaticale sbagliata, perché in questo caso bisogna usare il congiuntivo: “L’importante è che tu abbia superato l’esame”. Il congiuntivo può essere utilizzato in frasi indipendenti e, più spesso, in frasi subordinate (dipendenti). In frasi indipendenti il congiuntivo può esprimere: desiderio. Esempio: Carlo dice che domani ci sarà vacanza! Fosse vero! Dubbio. Esempio: Chi mi avrà mandato questa lettera? Che sia stata Alessia? Comando (con il Lei di cortesia). Esempio: Signor Mario, mi dia la mia penna! Invito, permesso. Esempio: Entri pure signora, si accomodi.
Nelle frasi subordinate, il congiuntivo può esprimere: un "genere" di subordinazione (indicare che la frase dipende da un'altra); un grado di "verità" inferiore al 100% (paura, dubbio, desiderio, opinione personale...). In alcuni tipi di subordinate, il congiuntivo è presente perché indica sentimenti come desiderio, dubbio, paura: Penso che Anna abbia mangiato la merenda (opinione personale); Non sono sicuro che Anna abbia mangiato la merenda (dubbio); Vorrei che Anna avesse mangiato la merenda! (desiderio); Ho paura che Luisa abbia mangiato la merenda di Anna (paura); Bisogna che Anna mangi subito la sua merenda!
In generale, quando nella frase principale c’è una delle espressioni che seguono, la subordinata vuole il congiuntivo: pensare che, credere che; immaginare che; supporre che; ritenere che; augurarsi che; sperare che; temere
Un altro degli errori più comuni commessi dagli italiani è l’uso dell’apostrofo in qual è (76%). Assolutamente sbagliato: si scrive sempre qual è e non qual è, senza apostrofo!
I pronomi (65%) – L’uso corretto dei pronomi è un altro grande errore commesso dagli italiani. “Gli ho detto che era molto bella”. In questo caso, in riferimento ad una persona di sesso femminile, bisogna usare il pronome “le”: “Le ho detto che era molto bella”. Gli, invece, si usa in riferimento ad una persona di sesso maschile. Vuol dire “a lui”.
L’uso della C o della Q (58%) – Classico errore che i più distratti si portano dietro dalle elementari. Se nella lingua parlata l’errore non si nota, nello scritto non scappa. Ecco un elenco di parole che si scrivono con la C ma per le quali spesso ci si confonde e si usa la Q: evacuare e NON evaquare; proficuo e NON profiquo; scuotere e NON squotere; riscuotere e NON risquotere; promiscuo e NON promisquo; innocuo e NON innoquo.
Ne o né? (47%) – Un altro di quegli errori “da penna rossa”. L’accento su “né” si utilizza quando questo vuole essere utilizzato come negazione. Nel caso in cui non sia presente la negazione, ne deve essere utilizzato senza accento: Ne voglio ancora e non né voglio ancora.
La punteggiatura (41%) – Non negatelo. Qui tutti ci siamo caduti almeno una volta. Virgole, punti e virgola, due punti, non vanno mai usati a casaccio. Ogni segno di punteggiatura ha la propria regola. La funzione principale della virgola è quella di dare una cadenza precisa a periodi lunghi e complessi. I due punti invece si usano, per esempio, per introdurre un discorso diretto oppure per presentare una spiegazione o un elenco. Il punto e virgola indica uno stacco intermedio tra due proposizioni di un periodo: più forte della semplice virgola e meno forte del punto.
Un po, un po’ o un pò? (39%) – Pur scorretta, la grafia “pò” con l’accento risulta sempre più diffusa. Basta una rapida ricognizione in rete per accorgersi che “un pò” non si trova solo in chat, nei blog e nei forum, ma anche in comunicati stampa e talvolta in articoli di giornale! La grafia corretta è “un po’ ” con l’apostrofo, perché la forma è il risultato di un troncamento.
E o ed? A o ad? (35%) – Sicuramente, almeno una volta nella vita, anche voi avete avuto il dubbio su quale congiunzione usare nel vostro messaggio. Attenzione: l’aggiunta della ‘d’ eufonica deve essere fatta solo nel caso in cui la parola che segue cominci con una vocale, meglio se si tratta della stessa vocale. Quindi: vado ad Amburgo; Era felice ed entusiasta.
Da’, fa’, sta’, va’ (49%): sono abbreviazioni di verbi all’imperativo Dai, fai, stai,vai, quindi non vanno scritte con l’accento.
Daccordo (31%)– Curioso errore, ma che spesso purtroppo ritorna nello scritto, è l’errore ortografico che riguarda l’errata scrittura della parola “d’accordo”, spesso scritta tutta attaccata e senza apostrofo.
Oltre agli errori appena citati ve ne sono altri davvero originali. Un esempio “curioso” si verifica nel settore estetico: “Devo fare la ceretta al linguine” (13%) invece della forma corretta “Devo fare la ceretta all’inguine” ma non mancano altri errori del tipo: “Pultroppo” (23) al posto di purtroppo. Allo stesso modo, capita di leggere “propio bene” (19%) e non “proprio bene” o ancora: “Andiamo a mangiare salciccia” (17%) quando la forma corretta è “salsiccia” perché la parola deriva dal latino salsicia. E per tagliarla molte volte viene usato il “cortello” (15%) invece del “coltello”.
Insieme a questi abbagli, un’altra tendenza che fa andare su tutte le furie i letterati è l’uso spropositato delle abbreviazioni che ha preso sempre più piede, specie nel linguaggio usato dai millennials. Alcuni lo chiamano slang di Internet poiché molte abbreviazioni sono usate nelle conversazioni informali di particolari gruppi sulle reti social o semplicemente nello scambio di messaggi tra smartphone ma, in realtà, il ricorso alla scrittura abbreviata è molto antico ed è dovuto a spinte molteplici. Per analizzarlo bisogna distinguere le epoche, gli oggetti, i mezzi, le situazioni e intenzioni socio-comunicative.
Per il passato, anche molto lontano, il fenomeno si osserva soprattutto nelle epigrafi, nelle quali si sommano: lo spazio ridotto di una lastra di pietra (o di bronzo o di altro materiale); il costoso lavoro dell’incisore; la posizione del testo, solitamente situato molto in alto e a notevole distanza dall’occhio del lettore; il poco tempo che questo può dedicare alla lettura mentre è in cammino; la stereotipicità di cariche e titoli, ordinariamente abbreviati. E’ nato così uno stile epigrafico costipato e solenne, di cui non riusciamo ancora a liberarci, e si generò l’uso delle sigle, le più famose delle quali sono SPQR (Senatus Populusque Romanus), PONT. MAX. (Pontifice Maximo), F.F. (Fieri fecit, “fece fare”). Ma un vero anticipo sugli sms sono le formule di saluto e di augurio con cui gli scrittori latini, e a quanto pare soprattutto Cicerone, aprivano e chiudevano le loro lettere agli amici: s.p.d. (salutem plurimam dico, “ti saluto tanto”) e addirittura s.v.b.e.e.v. (si vales, bene est: ego valeo: “buona cosa se stai bene, anche io sto bene”).
Il vero padre degli sms si colloca però nel I secolo a.C. ed è Marco Tullio Tirone, liberto e scriba di Cicerone, che inventò le notae, abbreviazioni che permettevano di stenografare i discorsi degli oratori. Dall’invenzione di Tirone si passa ai copisti medievali, che per quattro o cinque secoli scrissero largamente in… sms. Per i tempi andati valgono alcune ragioni fondamentali: il costo della pergamena era altissimo, i copisti erano pochi (anche se i più lavoravano nei monasteri e non bisognava pagarli) e dovevano smaltire molto lavoro. Naturalmente, anche i lettori erano pochi e di alte capacità interpretative.
Avvicinandoci ai nostri tempi, scavalcando la fase dei telegrammi e degli avvisi economici sui giornali, veniamo all’uso che della scrittura abbreviata fanno oggi gli scriventi digitali di tutto il mondo, soprattutto, ma non soltanto, i giovanissimi. Non siamo più in presenza di una pratica professionale e di motivi strettamente funzionali. La ragion d’essere della scrittura abbreviata era inizialmente la ristrettezza del numero dei caratteri da inserire nei piccoli schermi dei cellulari, accompagnata dalla generale ricerca di velocità; poi, il fenomeno è uscito da questi binari per insinuarsi nel più vasto campo della scrittura, anche “pubblica” (avvisi, segnaletica, elaborati scolastici e concorsuali…). Ed è qui che deve suonare l’allarme. I codici della lingua e della sua grafia fanno parte delle istituzioni che regolano la vita della comunità intera, fatta da persone di tutte le età e dei più diversi livelli di istruzione, e devono avere caratteristiche riconosciute da tutti. Le caratteristiche della moderna scrittura abbreviata sono altre: sono “scritture libere”, nell’ambito delle quali si istituiscono alcune convenzioni più o meno standardizzate (cmq, xk, tt, nn, tvtb, … 6 per sei verbo, ecc.), e si fa uso anche di un metalinguaggio (messaggiare, chattare…; da interface è nato interfacciare, di significato ora più generale); ma sono aperte all’inventiva del singolo e comunque in perenne trasformazione, grazie anche ai comandi predisposti nei dispositivi stessi.
Una volta che abbiamo inventato gli strumenti tascabili per la comunicazione istantanea e addirittura a sfioramento tattile (touch screen), essi rispondono bene ai nostri immediati e poco controllati desideri di segnalare un dato o di manifestare uno stato d’animo anche a chi non sia a portata di voce e di mano. Ed è intrinseca a questi impulsi anche la ricerca di originalità, di cripticità, di uscita dalla norma; e anche di intesa e complicità di gruppo. In questo quadro di riferimenti, dov’è il male del fenomeno? Il male non è insito nello strumento, ma nell’uso spropositato che se ne fa e che produce: grave perdita di tempo; compulsione all’invio di qualsiasi messaggio e di foto; distrazione mentre si fa altro; incapacità di concentrazione su se stessi. E per quanto riguarda i più giovani, e quindi gli studenti, il rischio di abituarsi solo a quella lingua contratta, approssimativa, monotematica e ultraconfidenziale: non di per sé inesatta, ma certo condizionata da un mezzo non adatto per rileggersi e correggersi, e pensare più ampiamente. L’accusa dei professori vorrebbe riferirsi a questi ultimi effetti. Ma il loro obiettivo educativo, oltre che nel fare spegnere i cellulari in classe, deve consistere in altro: nel far comprendere che la comunicazione veloce, personale, marginale si addice a modalità e situazioni diverse da quelle della comunicazione a vario titolo sociale, oltre che istituzionale; e nel dimostrare che non possiamo rinunciare alle forme complete della lingua e a una sintassi più elaborata per esprimere contenuti più ricchi e importanti e per utilizzare il patrimonio scritto pervenuto dal passato, che non è proprio il caso di perdere.
Evitiamo allora l’uso della K (38%) al posto di C/CH: non utilizziamo: “Ke cosa facciamo?” invece di “Che cosa facciamo”; o ancora: “mi piace tt questo” (35%) anziché “mi piace tutto questo”; “nn sopporto chi scrive così” (34%) al posto di “non sopporto chi scrive così”. Evitiamo anche di scrivere “avvolte” in luogo di “a volte”, e non dimentichiamo che “a volte” è meglio restare a casa “avvolti da un caldo plaid”.
Infine, “X concludere”, l’uso inappropriato della x sarebbe da abolire e ritrovare la forma più corretta “per concludere”: ricordiamo altresì che, se vogliamo migliorare, è fondamentale: leggere con regolarità, scrivere di più a mano ed evitare neologismi nel parlato.