Che cosa ti viene in mente sentendo parlare di “ansia da prestazione”? Probabilmente quella terribile e limitante sensazione che provano molti uomini quando si trovano in condizioni di intimità. Questo è un perfetto esempio di questa tipologia di ansia, ma di fatto ciascuno di noi, uomo o donna che sia, vive una condizione simile in tante occasioni della propria vita. L’ansia da prestazione è il sentimento doloroso che si prova in qualsiasi circostanza in cui ci si sente obbligati a corrispondere alle aspettative altrui – e non ci si sente in grado, o si ha paura di non farcela.
Poche cose come l’ansia da prestazione sono in grado di bloccarci e limitarci, impedendoci di esprimere il nostro potenziale. Questa condizione è in gran parte un portato della società di oggi, che ci vorrebbe “vincenti” e “perfetti” in qualsiasi circostanza. Il risultato è una generale intolleranza nei confronti della sconfitta, vissuta con senso di umiliazione e di disgusto, e un rifiuto dell’idea stessa di errore.
Ecco allora che le sfide perdono quel loro potenziale attraente e diventano dei pesi, anzi, dei macigni: se non ci diamo la possibilità di perdere in un gioco, il gioco stesso diventa fonte di ansia.
Secondo lo psicoterapeuta Rafael Santandreu, spesso noi non siamo influenzati dalla realtà (ciò che accade) ma dal nostro pensiero sulla realtà (il giudizio su ciò che accade). Questo fa sì che anche un piccolo fallimento possa diventare fonte di una grande – e forse inutile – sofferenza. Se è così, il segreto per vincere l’ansia da prestazione non sta nell’allenarsi alla possibilità del fallimento, ma nel riconsiderare l’idea di fallimento che abbiamo in testa. Sbagliare è così grave? È sempre grave o lo è solo in alcune circostanze? Come siamo finiti a pensare che le persone non possano fallire?
L’ansia da prestazione corrisponde, secondo Santandreu, a un “bisogno di efficacia”. Non tutti lo provano allo stesso modo. Chi è particolarmente limitato da questo tipo di ansia tende a sentire un elevato bisogno di sentirsi “efficace”. Il bisogno di cui parliamo è, in gran parte, influenzato dalle aspettative di una società consumista che pretende elevate performances da ciascun essere umano, tendendo a dimenticare la natura fallibile di ciascuno.
Spesso dimentichiamo poi che tra i due poli, riuscire e non riuscire, ci sono ampie sfumature: il concetto di “riuscire in parte” è per molti assimilato al fallimento, eppure rappresenta ciò che avviene della maggior parte dei tentativi umani. Il desiderio di diventare ricchi riesce in parte, perché pochi di noi divengono milionari; il desiderio di un amore appagante riesce in parte perché ogni bella storia di coppia ha le sue crisi. Queste cose che viviamo come fallimenti in realtà sono, per così dire, la norma della natura: sono gli ideali irrealistici di cui siamo vittime a farci leggere questa realtà con lenti distorte.
Secondo Santandreu, il segreto per uscire dall’ansia da prestazione è una “umiltà radicata”, cioè una calma che è il risultato di una profonda pulizia interiore volta a smantellare e decostruire paure e aspettative. Lo psicoterapeuta propone un esercizio: immaginare se stessi poveri, indigenti, impossibilitati a lavorare e chiedersi se in tale condizione potremmo comunque raggiungere la felicità.
La risposta di Santandreu a questo interrogativo è un “sì” perché non è nei risultati, secondo la psicologia, che risiede la vera soddisfazione. Per la nostra natura di animali sociali questa risiede, piuttosto, nel modo e nel tipo di relazioni che ci legano agli altri. Riconsiderare e ricalibrare la propria visione del concetto di risultato è, in questo senso, il più utile antidoto contro qualsiasi tipo di ansia da prestazione.