Il lavoro agile è ancor oggi, dopo quasi due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19, uno status che riguarda molti lavoratori, con i suoi entusiasti e i suoi detrattori. In particolare, chi critica lo smart working lamenta di lavorare a casa molto di più di quanto non facesse in ufficio: gli orari sembrano essersi fatti meno rigidamente scanditi ma anche più dilatati. Sembra, insomma, che dal lavoro non si possa mai staccare, anzi, disconnettersi: tra mail e telefonate che arrivano molto presto al mattino o molto tardi la sera o persino nel fine settimana, sembra che la vita del lavoratore contemporaneo sia sempre adombrata dallo spettro di un’attività continua e interminabile.
Il problema della labilità dei confini tra lavoro e vita privata non riguarda solo il nostro Paese, ma anche gran parte d’Europa, tanto che i diversi stati hanno cercato in ordine sparso di porvi rimedio tramite leggi apposite. Lo scorso anno è stata presa, in sede di Parlamento Europeo, una risoluzione riguardante il cosiddetto “diritto alla disconnessione”. Anche in Italia, con una legge del 13 marzo di quest’anno, tale diritto è stato sancito e confermato.
Ma perché allora è così comune, al di là delle leggi, che la possibilità di “staccare la spina” sia negata? Dobbiamo considerare il fatto che questo problema, che sembra di stretta (e passeggera) attualità, è in realtà il risultato di una mentalità aziendale da lungo tempo presente nella nostra società. Molti lavoratori si sentono pressati, in via diretta o indiretta, ad assecondare richieste che vanno oltre i confini del proprio contratto pur di salvaguardare la propria posizione all’interno dell’azienda. Ciò è facilitato dalla grande diffusione di contratti a tempo determinato, i quali sono portatori di continua ansia e insicurezza in chi li firma, e nell’idea che le cose, al giorno d’oggi, debbano funzionare così.
In realtà il diritto alla disconnessione e all’irreperibilità è il risultato di anni di lotte, nei decenni passati, da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti e lo smart working sta mostrando, con le sue contraddizioni, il progressivo logoramento dei diritti cui abbiamo assistito in questi ultimi anni.
La tecnologia non aiuta, in questo senso: la semplicità con cui il capo riesce a raggiungere il lavoratore in ogni luogo e in ogni momento rende più facili, e apparentemente innocue, delle veloci risposte fuori orario che viaggiano tramite la messaggeria mobile. Un compito apparentemente “leggero” che invece pesa come un macigno sul piano dei diritti, anche se non tutti ne sono consapevoli.
Il consiglio degli esperti non può essere che difendere il proprio diritto alla disconnessione, appunto, disconnettendosi: dire dei “no” legittimi dovrebbe essere il primo passo da parte dei lavoratori per costringere i loro responsabili a rispettare le leggi. Purtroppo, in molti casi, un clima aziendale teso o un senso di colpa indotto potrebbero rendere molto difficile dire questi “no”.