Siamo entrati nella cosiddetta “Fase due”, anche se tra tante polemica e mille incertezze. A messaggi tranquillizzanti seguono inviti allarmanti all’attenzione, al possibile ritorno al lockdown. Uscire non è sempre piacevole: mascherine, guanti, distanziamento sociale ma soprattutto ansia, paura del contagio. Ora possiamo uscire ma il pensiero dominante sarà fisso sul Covid, sulle sue incertezze, sul ricordo angosciante delle immagini di quelle dirette televisive, con le casse funebri allineate ed i cadaveri sui camion per essere cremati altrove.
Nella fase uno, i primi giorni sono stati terribili, poi ci si è adattati. Siamo diventati tutti pasticcieri, panificatori, pizzaioli e via dicendo. Alla fine, restare a casa è diventato un sollievo. Chiusi, come i cavalieri medievali, nelle nostre torri, abbiamo alzato il ponte levatoio, salutato il condomino e abbiamo trovato un nostro equilibrio, seppur fragile. La sensazione che in casa abbiamo tutto quello che ci serve e che, a questo punto, non cambi nulla allungare la quarantena di qualche settimana. Questa dimensione emotiva in psicologia è chiamata sindrome della capanna e, curiosamente, sta colpendo un gran numero di persone.
La prima cosa da chiarire è che si tratta di una reazione normale e non di un disturbo psicologico. Aver trascorso tante settimane isolati ha abituato il nostro cervello a quella sicurezza che troviamo solo tra le quattro pareti domestiche. In più, dobbiamo aggiungere un’altra considerazione: il Coronavirus non è scomparso. Il rischio di contagio è ancora presente ed è comprensibile che la paura di ammalarsi aumenti l’insicurezza e il timore di uscire.
La sindrome della capanna, o la cabin fever in inglese, in realtà è un’esperienza già descritta all’inizio del XX secolo. Vediamo di cosa si tratta.
Le prime descrizioni fisiche risalgono al 1900, epoca della corsa all’oro negli Stati Uniti. I cercatori erano costretti a passare mesi interi all’interno di una capanna. L’isolamento, dettato dalla necessità di concentrare l’attività in determinati periodi dell’anno, faceva sentire i suoi effetti: rifiuto di tornare alla civiltà, sfiducia nei confronti del prossimo, stress e ansia.
Un quadro sintomatologico comune anche nei guardiani dei fari, prima dell’automatizzazione, e che ben si adatta all’attuale situazione di quarantena. Gli psicologi hanno quindi rispolverato la sindrome della capanna per spiegare la realtà che in questo momento molte persone stanno vivendo. Ma quali sono i suoi sintomi più comuni e come la riconosciamo?
Uno dei più ricorrenti è la letargia. È tipico di questa condizione sentirsi stanchi, con braccia e gambe intorpidite, necessità di lunghi pisolini e difficoltà ad alzarsi al mattino. Si possono sperimentare anche effetti cognitivi come: difficoltà di concentrazione e scarsa memoria, demotivazione, voglia di determinati cibi per calmare l’ansia. La sindrome della capanna si manifesta spesso con un quadro emotivo specifico: tristezza, paura, angoscia, frustrazione.
La caratteristica più evidente è la paura di uscire, che spesso viene camuffata. Chi soffre di questa sindrome si limita a esprimere poca voglia di uscire perché sta bene in casa, dove c’è tutto quello di cui ha bisogno. Questa sintomatologia è più diffusa di quanto non si pensi, tant’è che per valutarne l’incidenza. Non si tratta certamente di una sensazione confortevole, soprattutto in un coro di persone che morde il freno per recuperare la propria vita, la normalità, la possibilità di uscire. E’ importante, quindi, comprendere e rispettare l’atteggiamento di chi, in questo momento, non aspetta con piacere la fase in cui potremo riprendere contatto con il mondo esterno.
Ecco alcune strategie utili da seguire: innanzitutto, concedersi del tempo, le sensazioni provate sono comprensibili. Come abbiamo detto, la sindrome della capanna non è un disturbo psicologico. Descrive semplicemente una situazione emotiva normale dopo un contesto di isolamento durato diverse settimane. Non alimentate, quindi, la paura e l’ansia con il pensiero di aver perso il controllo della situazione. Le emozioni che provate sono del tutto comprensibili. La soluzione è darvi tempo. Non è obbligatorio uscire oggi se non vi va. Potete procedere a piccoli passi. Cominciate arrivando al portone di casa, apritelo senza uscire. Domani potrete fare qualche passo e tornare indietro. Quando sarete pronti, potrete azzardare una passeggiata.
Abitudini e obiettivi
Il cervello ha bisogno di routine per gestire il tempo, sentirsi al sicuro e non dare troppo spazio alla ruminazione. Per ridurre gli effetti della sindrome della capanna, provate a ridurre il tempo del riposo, evitando soprattutto di passare molte ore a letto o facendo lunghe pennichelle. Stabilite una routine e seguitela: dividete la giornata in momenti di lavoro o pulizia della casa, tempo per mangiare in modo sano e fare esercizio fisico. E, cosa più importante, stabilite un’ora in cui uscirete di casa.
Infine, cercate supporto se ne avvertite il bisogno. Quando l’idea di uscire da casa terrorizza e non tende ad alleviarsi, è importante chiedere aiuto. Se sentite che vi è impossibile varcare la porta o che il semplice fatto di immaginarvi in strada vi genera ansia, potrebbe essere il caso di cercare un aiuto professionale.
Stiamo vivendo una sensazione senza precedenti e in questi mesi dovremo affrontare molteplici sfide psicologiche. Dobbiamo essere preparati, diventare sempre più cittadini responsabili, più umani e stare vicino agli altri, in modo da superare insieme questa crisi.