Fin dall’antichità, infatti, gli uomini si sono riuniti in gruppi sociali per poter sopravvivere. La società antica ha sicuramente enormi differenze rispetto a quella del presente, anche se il fattore sociale è rimasto in un certo senso invariato. Ma la socialità è un istinto primario o è il risultato di altre esigenze?
Darwin affrontò la questione partendo dall’osservazione del branco di animali. Nella lotta per la vita ciascun animale sente il bisogno di stare vicino ai propri simili per poter ottenere aiuto e difesa. Da ciò nasce un sentimento in ciascun animale che Darwin definisce simpatia per gli altri animali della sua specie.
Secondo Freud, invece, l’origine dei sentimenti sociali è da ricercarsi nel sentimento di gelosia che ha per oggetto la madre e che oppone i fratelli fra di loro. Quando ciascuno si accorge di non poter prevalere su tutti gli altri si batte perché almeno ci sia uguaglianza di tutti e dominio di uno solo. Freud ritiene dunque che la giustizia sociale significhi rinunciare a parecchio affinchè anche gli altri vi rinuncino. Questa rivendicazione di uguaglianza forma la radice della coscienza sociale e del sentimento di dovere.
Altri studiosi considerano la socializzazione non un istinto a se stante, bensì un mezzo per soddisfare altre esigenze. Non si nascerebbe dunque con il desiderio di socializzare ma si impara ad essere sociali: il bambino scopre molto presto i vantaggi di stare insieme agli altri e desidera associarsi ad altri per soddisfare bisogni essenzialmente egoistici, in quanto senza l’aiuto dei nostri simili saremmo in grado di fare ben poco, probabilmente nemmeno sopravvivere. In quest’ottica per appartenere ad un gruppo si deve essere pronti anche a sacrificarsi, a porre gli interessi di tutti al di sopra degli interessi dei singoli. Ovvio che se le persone si uniscono tra loro con l’intento di perseguire ciascuno esclusivamente i propri interessi non si può parlare di gruppo sociale e di sentimenti sociali. Appartiene a questa corrente di pensiero l’antropologo Trivers, il quale introduce il concetto di altruismo reciproco, sintetizzabile con l’adagio latino "do ut des" (io do affinché tu dia).
Nel 2007 è stato pubblicato un interessante studio condotto dall’Università del Michigan di Ann Arbor dall’antropologo Kevin Langergraber, su una comunità di scimpanzé del Parco Nazionale di Kibale in Uganda. Lo scopo dello studio è stato quello di capire l’influenza dei legami di parentela sui comportamenti cooperativi tra i vari componenti del gruppo. La ricerca ha dimostrato che molti episodi collaborativi avvengono tra elementi non imparentati tra loro. Le attività svolte insieme sono varie, si va dalla caccia alla difesa del territorio da intrusi fino alla condivisione di risorse alimentari. Secondo l’antropologo che ha condotto lo studio tali comportamenti sarebbero messi in atto in quanto conferirebbero benefici individuali e poco importa se l’atteggiamento collaborativo avviene con elementi non imparentati. Sarebbe quindi una ragione egoistica a spingerli a collaborare reciprocamente.
Al di là di qualsiasi posizione teorica, il dato certo è che l’essere umano è animale sociale perché la società è la condizione sine qua non per l’esplicazione della propria personalità. Del resto, dopo un anno e più di isolamento sociale causato dalla pandemia, abbiamo capito ancora di più quanto abbiamo bisogno degli amici. Quello che non conoscevamo era quanto ci possa far soffrire la loro assenza. La risposta ce l'ha fornita la neuroscienziata Livia Tomova, del Mit di Boston, con uno studio pubblicato su Nature Neuroscience: gli amici ci possono mancare esattamente come ci manca il pane quando siamo affamati.
Ulteriori approfondimenti di questo studio stanno ora indagando se, e in quale misura, le relazioni virtuali, per esempio quelle intrattenute tramite le videochiamate, possano alleviare questa "fame". Perché la socialità, come si è visto, è un bisogno primario, proprio come quello del pane.
Così come il corpo ha bisogno di nutrirsi e riposarsi, la mente e l’anima dell’uomo hanno bisogno di confrontarsi con i loro simili per poter andare avanti. Nell’antichità vivere in società voleva dire assicurarsi la sopravvivenza perché con il gruppo si era più al sicuro da attacchi di animali o bestie feroci. Con l’installarsi di comunità sempre più grandi e stanziali si è sentita la necessità di regolare i comportamenti in modo da mantenere un clima sereno e pacifico. Infatti, è importante che ogni membro della società si senta al sicuro e protetto e nessuno può pensare di far quello che vuole quando ne ha voglia. Sono un po’ i principi cardine su cui sono fondati gli Stati mondiali infondo.
L’uomo per natura sente il bisogno di unirsi in gruppo. Questo è stato un punto su cui molti studiosi si sono impegnati a trovare una soluzione, ma una risposta univoca non c’è. Sicuramente l’uomo è per natura alla ricerca dei suoi simili e stare in società è il modo per star bene prima di tutto con se stessi e poi con il mondo circostante.