In questo nostro spazio abbiamo già parlato di work-life balance e di quanto sia importante stabilire dei chiari confini tra lavoro e vita privata. Infatti, da diverse indagini e sondaggi emerge che gran parte dei lavoratori di oggi si rende disponibile a rispondere alle mail, al telefono o a portarsi avanti con il lavoro quando teoricamente dovrebbe essere in ferie o a riposo. Questa abitudine, che sembra poca cosa, quando diventa un sistema fa sì che si perdano i confini tra vita privata e lavoro; nel contempo i “capi” si abituano a contare sui loro dipendenti senza rispettare un “diritto alla disconnessione” di cui si parla molto ma che non è ancora legge.
Questo modo subdolo (per chi ne approfitta) e spesso inconsapevole (per chi subisce) aumenta il rischio di burnout e lede in modo significativo la salute mentale e fisica. Mentre nei Paesi Scandinavi si parla di full time da 6 ore e di giornata lavorativa di 4 giorni, in altri Paesi, incluso il nostro, le 8 ore di lavoro nette sembrano a volte un miraggio.
Il diritto alla disconnessione è una regola di buon senso che tutti dovrebbero applicare, ma è evidente che non basta. Per questo molte nazioni stanno pensando ad apposite leggi per regolamentare meglio gli orari di lavoro, soprattutto nel caso in cui la prestazione si svolga da remoto.
Nell’UE, i primi a discutere alla possibilità di vietare il lavoro oltre orario sono Francia, Croazia, Portogallo e Italia. In altri Paesi qualcosa si è già fatto: in Belgio i dipendenti pubblici godono del diritto alla disconnessione, anche se lo stesso non si può dire per i privati. Lo stato della California (USA) sta progettando proprio in questi mesi di varare una legge anti-sfruttamento che preveda il diritto alla disconnessione, e l’Australia si sta già muovendo nello stesso senso.
Finché la scelta di tutelare i dipendenti con apposite norme si fa in seno all’azienda o alla multinazionale, il mondo del lavoro continua a essere un far west nel quale, sotterraneamente, si perpetrano veri e propri abusi psicologici sui lavoratori. Essere reperibili 24/7 fa male, fisicamente male, lo dimostra l’esperienza di categorie che già lo fanno come i medici o gli operatori di polizia (che però hanno i loro giorni di riposo ben definiti) e se è così lo sforzo deve almeno essere retribuito.
Nella società di oggi superare la burnout culture, la cultura del sacrificio estremo pur di mantenere un posto di lavoro, è una sfida fondamentale che sta venendo incarnata sempre più spesso dai nuovi lavoratori, i giovani, sempre più informati e attenti a tutelare i propri diritti. È grazie a loro se, forse, riusciremo a fermare la barbarie della reperibilità totale, quella degli stage gratuiti e quella dei finti part time, anche se a volte la battaglia sembra impossibile da vincere.