La ferita del rifiuto è tra le più dolorose e paralizzanti che esistano. Ci sentiamo rifiutati quando il partner ci lascia, quando perdiamo il lavoro, quando qualcuno dei nostri amici ci abbandona, ma anche semplicemente quando qualcuno a cui teniamo non mette più like alle nostre foto sui social. A gradi diversi in base alla situazione, il rifiuto colpisce dritto al cuore e vi si insedia avvelenando la nostra giornata o addirittura la nostra intera vita.
Ma perché il rifiuto è così doloroso? La risposta è che il nostro cervello è strutturato appositamente per reagire in modo estremo a questo avvenimento. Infatti quando subiamo un rifiuto, grande o piccolo che sia, si attivano le stesse aree cerebrali coinvolte nel dolore fisico, l'insula anteriore e la corteccia cingolata anteriore. Diversi esperimenti hanno mostrato che quando le persone subiscono atteggiamenti di rifiuto queste parti del cervello si “accendono” facendo sentire un dolore molto intenso, quasi palpabile.
Secondo gli psicologi il dolore associato al rifiuto nacque quando i nostri antenati vivevano come cacciatori in piccole tribù. In un sistema sociale del genere e circondati da una natura ostile, essere cacciati dal clan equivaleva a morte certa. Ecco che nacque nel nostro cervello questa sorta di segnale d’allarme, che si attiva ancora oggi ogniqualvolta rischiamo di essere tagliati fuori dalla nostra rete sociale. Crediamo ancora, inconsciamente, di “non poter vivere” se la persona che amiamo o che stimiamo ci abbandona.
Purtroppo, quando subiamo l’esperienza del rifiuto, la nostra reazione non è di auto-protezione e compassione ma, al contrario, di autosvalutazione. In poche parole, quando siamo abbandonati reagiamo autopunendoci e non dandoci conforto. È molto comune che chi viene rifiutato inizi a chiedersi ossessivamente quali siano le sue colpe e come possa rimediare, mentre invece spesso l’abbandono non è affatto colpa sua!
Certo, l’esperienza del rifiuto può insegnarci delle cose: è per questo che anche una reazione autosvalutante è in principio normale. Se per esempio veniamo scaricati al secondo appuntamento perché ci siamo comportati in modo sgradevole parlando tutto il tempo del nostro ex, il dolore del rifiuto e l’autocritica che seguono possono darci un insegnamento: “mai più passare gli appuntamenti a parlare delle mie storie passate”. Il problema è che spesso non pensiamo in questo modo sano, ma traiamo altre conclusioni più drastiche e distruttive, come: “sono un buono a nulla incapace di costruire relazioni”.
Quando veniamo rifiutati è proprio il momento in cui abbiamo bisogno di attribuirci valore, ricordando a noi stessi quali sono le nostre qualità positive e rafforzando l’autostima. Ad esempio, per confortarci, possiamo scrivere su un foglio o ripetere a mente quali sono tutte le nostre migliori qualità, per ricordare che noi valiamo a prescindere dall’accoglienza che possono darci gli altri. Questo piccolo esercizio aiuta a ridurre il dolore e il senso di colpa associati al rifiuto.
In un secondo tempo, dopo che si è subito un rifiuto da qualcuno, è importante ricorrere alle relazioni “sicure” e valorizzarle. Se per esempio siamo stati scaricati al primo appuntamento, può essere utile chiamare la nostra migliore amica e chiederle di passare una serata insieme. In questo modo ricordiamo al nostro cervello che l’allarme che si è attivato non serve, che siamo comunque amati, che non siamo totalmente soli.
Passato il primo momento di dolore, riflettiamo sull’accaduto e vediamo di rivolgere le nostre attenzioni a persone che possano davvero accoglierci per ciò che siamo. Tutto quello che dobbiamo fare è muoverci per trovare il nostro “clan”, come i nostri antenati lo chiamerebbero: uno spazio interpersonale dove vivere sicuri e in armonia, sempre più forti e al riparo anche dagli inevitabili rifiuti della vita.